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La partita sulla proposta sul Salario minimo in Italia sembra bloccata, con la sinistra politico-sindacale sulla difensiva. Va invece colta l’occasione per mettere i bastoni tra le ruote a un sistema basato sulla svalutazione del lavoro .

Assistiamo da decenni a un attacco frontale contro i lavoratori con una retorica che usa le loro condizioni di vita e soprattutto i loro salari e stipendi come capro espiatorio del tragico declino italiano. Lavoratrici e lavoratori insultati e denigrati perché si rifiutano di lavorare per una miseria oppure manganellati perché scioperano contro turni massacranti e diritti non riconosciuti e non rispettati. Dicevano che abbassando il costo del lavoro tra salari e contributi sarebbe aumentata la competitività, invece abbiamo continuato ad assistere al declino degli investimenti, alla svendita delle imprese italiane e alla fuga dall’Italia. Fuggono i profitti delle imprese e più di centomila cittadini ogni anno. Non per scelta ma per necessità, per trovare un lavoro che sia retribuito mentre in Italia sono costretti a lavorare in una spirale infinita tra tirocini, contratti brevi o stage gratuiti.

La fotografia del disastro

Secondo le stime dell’Istat quasi tre milioni di lavoratori dipendenti guadagnano meno dei fatidici 9 euro lordi, proposti dal M5S, per ora lavorata pur includendo le tredicesime mensilità. Sono principalmente lavoratori dei settori in espansione occupazionale, quel terziario a bassa produttività ed enormi rendite in cui il tessuto imprenditoriale italiano ha deciso di specializzarsi negli ultimi decenni. Ma purtroppo sono anche operai metalmeccanici: il 14,3% dei nuovi rapporti di lavoro nel settore metalmeccanico paga meno di 9 euro lordi l’ora. Percentuale che raggiunge il 27% nel settore alberghiero e della ristorazione, oltre il 18% per sanità e assistenza sociale e addirittura il 28% nel settore dell’istruzione. A questi vanno aggiunti tutti i lavoratori parasubordinati, i tirocinanti, gli stagisti che guadagnano ancora meno.

A poco serve fare una media nazionale o usare il valore mediano che indica quanto guadagna il 50% più povero dei lavoratori, perché le disparità salariali sono tali da rendere inservibile – quando non controproducente – questa informazione. Inservibile perché non aiuta a dare una risposta concreta ai milioni di lavoratori che vivono sotto la soglia di povertà. Non ci riferiamo soltanto a quella fascia di mondo del lavoro fuori dal contratto, cioè esclusa dai benefici della contrattazione collettiva, ma anche a coloro che pagano sulla propria pelle contratti da fame: secondo uno studio della Fondazione Di Vittorio, nel 2015 il salario orario per ora retribuita era appena 5,2 euro per colf e badanti, 5,8 per i portieri, ma anche 6,8 per il contratto di pulizia delle cooperative. Controproducente perché rischia di allargare una frattura che è già ampia tra classe lavoratrice, organizzazioni sociali e istituzioni politiche.

Di questo occorre ragionare, qui e ora, sapendo che il salario minimo è uno strumento, non l’unico ovviamente, di una questione gigantesca che travolge il paese da trent’anni. Non solo l’Italia, ma l’Europa. I salari sono bassi in tutto il continente e fissati a livelli di sussistenza, tecnicamente i salari minimi sono ancorati a circa il 50% del salario mediano che non garantisce condizioni di vita degne e lascia milioni di lavoratori in condizioni di povertà mentre il 10% più ricco della popolazione – di cui i lavoratori non fanno parte – può continuare ad accumulare rendite e profitti, piangendo miseria.

La funzione del salario minimo e la contrattazione collettiva

Ragionare attorno alla questione salariale deve avere allora l’obiettivo di individuare un meccanismo che metta i bastoni tra le ruote a una struttura produttiva che prova a stare a galla continuando a esternalizzare al massimo ribasso grazie alla svalutazione salariale. In breve, la definizione di un salario minimo per legge basato sul presupposto «stesso salario per stesso lavoro», avrebbe il merito di limitare il ricorso alla scomposizione del ciclo di produzione e all’esternalizzazione verso realtà produttive (cooperative) che impongono condizioni peggiorative.

Chi oggi si oppone a questo argomento sostiene che basterebbe estendere i contratti collettivi anche al lavoro in appalto o somministrazione. Attorno a questo nodo si sviluppa la posizione della Cgil, legittima ma che appare vincolata a una strategia difensiva, quando è invece arrivato il momento per cogliere l’occasione di fare un passo in avanti. Infatti, alcuni contratti prevedono paghe troppo basse ed estenderli non aiuterebbe a migliorare le condizioni materiali dei lavoratori e delle lavoratrici coinvolti. Inoltre, l’introduzione del salario minimo favorirebbe una riunificazione del mondo del lavoro, consentendo ai lavoratori di riconoscersi come corpo collettivo, attenuando le divisioni imposte dal fronte padronale. Salari più alti renderebbero sconvenienti gli strumenti di frammentazione del ciclo produttivo e/o della forza lavoro, come il ricorso alla somministrazione, fin qui utilizzati proprio per ridurre il costo del lavoro e rendere i lavoratori sempre più deboli e ricattabili. Il massimo ribasso non potrebbe andare oltre quel minimo, ammesso che si continui a lottare per il suo rispetto e contro ogni forma di deroga al ribasso.

Bisogna allora ribaltare la narrazione attorno alla questione salariale e al salario minimo stesso. Non si tratta di uno strumento per alleviare la povertà nel lavoro, ma di un meccanismo utile per rendere il rapporto di forza tra profitti e salari meno sbilanciato a favore dei primi. È inoltre fuorviante discutere della relazione tra salari minimi e mediani e non invece della relazione tra profitti e salari in un contesto internazionale in cui i guadagni netti della produzione sono andati principalmente in tasca agli imprenditori e non ai lavoratori che quel valore hanno prodotto.

Per qualche strano motivo in Italia, invece, si è fatta strada la leggenda per cui contrattazione collettiva e salario minimo legale siano due strumenti che si escludono a vicenda. Secondo la tesi ricorrente, l’introduzione del salario minimo limiterebbe l’autonomia delle parti sociali e aprirebbe la strada a un processo di disintermediazione. Le rappresentanze sindacali verrebbero estromesse dalla possibilità di contrattare i livelli salariali provocando una crisi dei legami di solidarietà nel mondo del lavoro e l’avanzata di un processo di individualizzazione tra i lavoratori; processo già abbondantemente in atto. A questa argomentazione se ne aggiunge un’altra, che vede nella definizione dei minimi salariali per via legale uno strumento che può rivelarsi controproducente per la tenuta del potere d’acquisto dei lavoratori e delle lavoratrici. La politica potrebbe decidere autonomamente i livelli salariali più consoni alle esigenze delle imprese, promuovendo politiche di moderazione salariale. Non si capisce perché i sindacati non potrebbero opporsi portando in piazza e in tutta la società forti ondate di mobilitazione, rimettendo in gioco tali scelte senza avallarle passivamente.

Entrambe queste argomentazioni contrarie al salario minimo appaiono discutibili. Paesi come Francia, Belgio, Portogallo vantano una copertura dei contratti collettivi pari o superiore a quella italiana e contemporaneamente la presenza di un salario minimo legale. Il punto in questione è semmai come i due strumenti, salario e contratto, vadano coordinati per assicurare la tenuta dei salari. Questo è il tema che andrebbe discusso, non altro. Allora, rispetto a questo punto la questione riguarda in che modo il salario minimo legale possa incentivare o disincentivare il potere delle organizzazioni sindacali e della contrattazione collettiva. La risposta è abbastanza semplice: il livello del salario minimo legale deve essere in linea con i contratti collettivi più generosi.

Qui si pone il tema della soglia salariale sotto la quale nessuno può essere costretto a vendere la propria forza lavoro. Si tratta di giocare in avanti e non indietro, quindi di prevedere un limite salariale che non si riduca a tappare i buchi della contrattazione collettiva, ma che assicuri un salario in linea con la tipologia di lavoro svolto. Detta altrimenti bastano le chiare parole dell’articolo 36 della Costituzione secondo cui «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa». Questo è ancora più decisivo in un contesto come quello italiano dove dai primi anni Novanta la svalutazione salariale è diventata sport nazionale. Diversamente da quello che appare leggendo le parti chiamate a esprimersi sull’argomento (mai i lavoratori), il problema salariale in Italia non dipende dalla scarsa copertura dei contratti collettivi bensì dalla debolezza di questi contratti. Insomma, il problema non è solo quello di estendere i minimi contrattuali a una platea di lavoratori scoperti dalla contrattazione collettiva o dove quest’ultima è al di sotto di minimi dignitosi. Qui il riferimento è ai contratti collettivi del settore Multiservizi, dove i minimi superano di poco i 7 euro, al settore degli alloggi, ai lavoratori della vigilanza privata. In questi casi, il salario minimo avrebbe la funzione di garantire un pavimento per la contrattazione collettiva, consentendo ai sindacati di poter aggredire margini di dignità da restituire ai lavoratori riportando al centro della contrattazione non solo il salario ma anche il tema dell’organizzazione del lavoro, dal controllo sui turni alla tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro e perché no di rivendicare ulteriori aumenti salariali come leva per la crescita della produttività, e non viceversa.

La destra all’attacco, la sinistra in difesa

La questione dei bassi salari in Italia è ormai al centro del dibattito pubblico. Ne parlano i giornali, le televisioni, i social network, la politica. Dopo anni spesi a dire che la crisi era finita, che i problemi dell’economia e della società italiana erano dovuti al pessimismo, a questa particolare sindrome italica che vede l’orizzonte continuamente minacciato da sventure, finalmente si torna a parlare di un tema che riguarda la condizione materiale di milioni di persone. Perché parlare di salari in Italia significa misurarsi con un paese diviso, devastato da politiche economiche che hanno ampliato le differenze tra ricchi e poveri, tra chi ha eredità, proprietà e capitali e tra chi non ha nulla, se non braccia e mente. E si sa, quando la realtà è così dura non ci sono finzioni che tengano, narrazioni, retoriche che possano nascondere la disperazione di milioni di persone che vivono ai margini della società, gettati in una condizione di miseria e umiliazione. Si parla di salario minimo oggi, di questione salariale, perché non si può più farne a meno, non si può più pensare che i problemi siano altri. Il problema ancora una volta è come si parla di salario minimo, chi ne parla, per quale obiettivo. E qui le cose si complicano. Nella crisi verticale della sinistra, delle forze politiche eredi del movimento operaio, la destra dimostra di annusare con anticipo i drammi che scuotono la vita di milioni di persone. La destra sembra avere una marcia in più, come se sapesse meglio districarsi nella disperazione e nella rabbia, sentendo prima dei suoi avversari gli umori di quella parte del paese colpita e che deve domare.

E così capita di leggere editoriali a firma di “tecnici” di chiaro orientamento liberista, come Tito Boeri, ex presidente dell’Inps, che dalle pagine de La Repubblica difende lo strumento del salario minimo a condizione che non dia fastidio alle imprese. Il salario minimo come strumento di controllo sociale, provando a sedare quella fetta sempre più ampia di società che non mette insieme il pranzo con la cena, per evitare che un vero conflitto esploda. Ma allo stesso tempo, il salario minimo deve essere posto a un livello tale che non disturbi i profitti delle imprese, il loro potere di decidere tutto. Dice Boeri:

«Il fatto è che se stabilito a livelli bassi […] il salario minimo può aumentare sia le retribuzioni effettive che l’occupazione perché stimola l’offerta di lavoro e impedisce ai datori di lavoro di pagare i lavoratori meno della loro produttività. Se, invece, stabilito a livelli più alti distrugge molti posti di lavoro».

Una frase che trasforma un punto di vista parziale in oracolo. Perché Boeri non ha alcuna evidenza empirica, nessun fatto reale, su cui basare le sue opinioni, che tali rimangono. Boeri sostiene che un livello del salario minimo basso aiuti l’occupazione e le retribuzioni perché stimola l’offerta di lavoro, cioè porta sul mercato più lavoratori disposti a lavorare per poco. Qui, c’è un’idea cara all’ideologia neo-liberale secondo cui è l’offerta che crea la domanda e quanto più bassi sono i salari tanto più alta sarà l’offerta. Sono poi le imprese che creano lavoro, quindi bisogna metterle nelle condizioni di poter assumere, tenendo bassi i salari, in modo che possano garantire i propri margini di profitto. Un salario troppo alto avrebbe invece l’effetto di scoraggiare le imprese ad assumere, aumentando la disoccupazione. A supporto di questo punto di vista Boeri dice che un salario minimo basso eviterebbe che le imprese possano pagare salari inferiori al livello della produttività.

Peccato che la realtà confligga sempre con le parole di Boeri: le imprese pagano salari inferiori alla produttività, come testimoniano innumerevoli studi dall’Organizzazione Internazionale del lavoro all’Ocse. Verrebbe da chiedersi dove abbia vissuto Boeri in questi trent’anni in cui lo schema principale è stato appunto la moderazione salariale – il furto salariale – come strumento della competitività delle imprese. Un meccanismo che non ha minimamente sollevato la produttività del sistema economico italiano. Bassa produttività per bassi salari e perché no gabbie salariali (basate sui diversi costi apparenti della vita nelle varie regioni) per non farci mancare nulla. Questo lo schema che ha vinto negli ultimi trent’anni e che Boeri prova a ripetere, senza sosta, scaricando le responsabilità ancora una volta sui lavoratori e non sulle imprese che hanno scelto la via della deindustrializzazione e della rendita. Ma Boeri si sa è uno dei più noti interpreti del liberismo e gioca la sua partita.

Parafrasando il lessico calcistico la partita sul salario minimo sembra bloccata, la tattica la fa da padrone e nessuno schieramento sembra deciso a sferrare il colpo decisivo. Da una parte la Lega, attende sorniona la sconfitta del Movimento Cinque Stelle, la cui proposta di salario minimo a 9 euro lordi non convince sindacati e Confindustria. Dall’altra parte, il blocco politico-sindacale a sinistra appare chiuso sulla difensiva, intenzionato a giocare nella propria metà campo, in difesa in un campo assediato dal nemico. Un atteggiamento che rischia però di esporsi allo schema di gioco imposto dagli avversari, che hanno colto che sul tema salariale si gioca una fetta importante del consenso politico in Italia e in Europa. D’altronde la questione salariale per come esplode nel paese segna la rottura di un argine, la disintegrazione della mediazione e del contratto. Non è una piccola ferita in un corpo sano, si tratta di una frattura profondissima che richiede un intervento strutturale. Non di crisi ciclica si tratta, ma di crisi organica, di modello di sviluppo, di rapporti di forza. Da qui occorre partire. Allora, non ha alcun senso limitarsi esclusivamente a difendere la propria metà campo, si dovrebbe avere tutto l’interesse ad attaccare tutto il campo, a disporsi per fare della questione salariale la leva per ricostruire le fondamenta di un nuovo contratto.

*Marta Fana, PhD in Economics, si occupa di mercato del lavoro. Autrice di Non è lavoro è sfruttamento (Laterza, 2017). Simone Fana si occupa di servizi per il lavoro e per la formazione professionale. Autore di Tempo Rubato (Imprimatur, 2018).

 

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