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«Le rivoluzioni sono le locomotive della storia»
Karl Marx, La lotta di classe in Francia (1850)

Le rivoluzioni hanno rappresentato la più rilevante forma di conflitto politico nel XX secolo – se non nella storia dell’umanità -, a eccezione, forse, delle guerre mondiali. L’inizio di processi rivoluzionari nella regione del Medio Oriente e dell’Africa del Nord (d’ora in poi: MOAN) nel corso del decennio trascorso rientra in questi avvenimenti importanti, e rivoluzionari, della storia umana. Non vi sono dubbi sul fatto che la prima ondata di rivolte nel 2011 ha inaugurato un’epoca, non ancora conclusa, di rivoluzioni e controrivoluzioni nel MOAN.

Un processo rivoluzionario a lungo termine

Per rivoluzione si intende solitamente un ampio movimento popolare che realizza un profondo mutamento radicale, o che lo persegue senza conseguirlo. Nel caso dei sollevamenti popolari della regione del MOAN, i mutamenti derivati dagli avvenimenti che hanno preso avvio fra la fine del 2010 e gli inizi del 2011 non hanno prodotto trasformazioni radicali nelle condizioni materiali delle strutture politiche e sociali della regione, a parte l’abbattimento della dominazione economica e politica di alcune cricche familiari al potere: Tunisia, Egitto, Libia, Yemen, Algeria, Sudan eccetera. In altri termini, abbiamo assistito a forme di rivoluzioni politiche limitate, ma senza alcun mutamento delle strutture economiche e sociali della società, poiché una rivoluzione sociale comporta mutamenti più profondi, che mettono in causa il regime d’accumulazione dato (neoliberalismo) in seno al capitalismo o il modo di produzione stesso. Si tratta di una distinzione importante, perché i problemi della regione del MOAN non sono solo politici, ma sono il prodotto della sua forma particolare di capitalismo.

Tuttavia, abbiamo assistito alla mobilitazione di ampi settori delle classi popolari contro gli Stati, che esigevano il rovesciamento di quei regimi. Si tratta di una delle principali condizioni di una rivoluzione.

«La caratteristica più incontestabile della rivoluzione», ha scritto in particolare il rivoluzionario russo Lev Trotskij, «è l’intervento diretto delle masse negli avvenimenti storici. Di solito è lo Stato, monarchico o democratico, a dominare la nazione: la storia è fatta dagli specialisti del mestiere: monarchi, ministri, burocrati, parlamentari, giornalisti. Ma nei momenti cruciali, quando un ancien régime diventa insopportabile alle masse, le masse infrangono gli ostacoli che le separano dall’arena politica, rovesciano i loro rappresentanti tradizionali e con il loro intervento gettano le basi di un regime nuovo. […] La storia della rivoluzione è per noi, innanzi tutto, la storia dell’irrompere violento delle masse sul terreno dove si decidono le loro sorti».

Un’altra caratteristica risiede nel fatto che in alcune sollevazioni popolari, in determinati periodi si crei una situazione simile a quella di un dualismo di poteri, come per esempio in Siria agli inizi del movimento di protesta. In questo caso, però, non si trattava di una forma di alternativa sociale rivoluzionaria alle strutture politiche ed economiche del capitalismo siriano, dati i limiti che avevano in termini di sistema alternativo d’autonomia democratica. Quest’ultimo sistema non si è mai sviluppato pienamente e vi sono stati dei problemi, in particolare la sottorappresentazione delle donne e delle minoranze etniche e religiose. Tuttavia, i comitati e i consigli sono riusciti egualmente a rappresentare un’alternativa capace di coinvolgere ampi settori della popolazione.

Dobbiamo intendere i sollevamenti popolari della regione come un processo rivoluzionario prolungato o a lungo termine, che permette di combinare la natura rivoluzionaria delle situazioni attuali e il cammino che deve ancora essere percorso per la realizzazione dei loro obiettivi democratici e sociali.

Alle radici del processo

I processi rivoluzionari della regione del MOAN sono il risultato della confluenza e del mutuo rafforzamento di diverse situazioni d’insoddisfazione, di lotta e di mobilitazione popolare. Queste battaglie sono strettamente legate e hanno permesso a diversi settori di queste società d’unire le forze per ribellarsi contro regimi autoritari e corrotti, giudicati responsabili del continuo aggravarsi della crisi sociale ed economica.

Questi sollevamenti hanno radici nel dispotismo e nell’autoritarismo, da un lato, e nel blocco dello sviluppo delle forze produttive a causa dei rapporti di produzione, dall’altro.

In questa prospettiva i sollevamenti nel MOAN non sono dunque solo un prodotto della grande crisi economica mondiale del 2008. La Grande crisi non ha avuto che un effetto moltiplicatore dei fattori strutturali specifici nell’esplosione regionale.

Le cause profonde del blocco economico a lungo termine dipendono dalle modalità specifiche del modo di produzione capitalista dominante nel MOAN: un capitalismo spregiudicato, speculativo e commerciale caratterizzato dalla ricerca del profitto a breve termine. L’economia della regione è troppo concentrata nell’estrazione del petrolio e del gas naturale, nel sottosviluppo dei settori produttivi, nell’ipersviluppo dei servizi che alimentano diverse forme di investimenti speculativi, in particolare nel settore immobiliare.

In questo particolare modo di produzione, la natura patrimoniale di questi Stati, in cui i centri di potere (politico, economico e militare) sono concentrati in una famiglia e nella sua cricca, si sviluppa un capitalismo clientelare (crony-capitalism), dominato da una borghesia di Stato. In altre parole, i membri e i clienti delle famiglie dirigenti sfruttano spesso la loro posizione dominante, garantita dal potere politico, per accumulare notevoli fortune. Nei casi dell’Egitto, della Tunisia, dell’Algeria e del Sudan, i sistemi politici erano più simili a forme di neopatrimonialismo: sistemi repubblicani istituzionalizzati, autoritari, con un grado maggiore o minore di autonomia dello Stato rispetto ai suoi dirigenti, suscettibili di essere sostituiti. Vi era anche presente il nepotismo.

In questi Paesi, le politiche neoliberiste e le misure d’austerità hanno provocato un crescente indebolimento e uno smantellamento dei servizi pubblici, la soppressione dei sussidi – in particolare nel caso dei beni di prima necessità -, accelerando così il processo di privatizzazione, molto spesso a favore delle classi dirigenti e di quelle borghesi collegate al potere politico.

Le riforme neoliberiste dei regimi arabi hanno stimolato una politica basata sugli investimenti diretti esteri, sullo sviluppo delle esportazioni e del settore dei servizi, e in modo particolare del turismo. In questa ottica, i governi hanno garantito alle aziende tassazioni molto basse o del tutto assenti con una manodopera a buon mercato. L’apparato repressivo di questi Paesi ha funzionato come una “guardia privata” per le compagnie, mettendole al riparo da disordini o rivendicazioni sociali. Sono Stati che si sono comportati come intermediari per il capitale straniero e le grandi multinazionali, garantendo allo stesso tempo l’arricchimento d’una classe borghese legata al regime.

Ogni Paese ha specificità proprie, ma tutti presentano sintomi simili. Le loro economie sono caratterizzate da una polarizzazione in settori limitati, da tassi d’occupazione molto bassi associati a tassi di migrazione qualificata molto alti, da una gestione rentière [“di rendita”] delle risorse (comprese quelle non naturali) e da una corruzione organizzata da una oligarchia clanica, spesso comprendente le gerarchie militari. Nel caso delle monarchie del Golfo, la maggior parte della popolazione attiva è formata da lavoratori migranti temporanei, privi dei diritti politici e civili riservati ai cittadini. Nel Kuwait, nel Qatar, negli Emirati Arabi Uniti e nell’Oman questi lavoratori migranti rappresentano oltre l’80 % della popolazione attiva.

In diversi di questi Paesi già negli anni precedenti l’inizio dei sollevamenti popolari l’assenza di uno sviluppo economico e l’impoverimento di ampi settori della società avevano provocato sempre più frequenti proteste sociali e operaie.

All’opposto di quanto sostenuto dalle istituzioni finanziarie internazionali e da alcuni Stati occidentali (e in particolare dai governi statunitensi), che accompagnavano l’espansione delle politiche neoliberiste a programmi di promozione “della democrazia” nel Sud del mondo, le politiche neoliberiste non hanno affatto prodotto un rafforzamento di una “classe media indipendente o capitalista” destinata a sfidare le dittature e a condurre alla democrazia: hanno prodotto forme più acute di autoritarismo.

Questo non significa che noi dovremmo adottare una prospettiva economicista, che riconduce tutto alla sfera economica. La situazione socioeconomica va analizzata poiché provoca l’aumento delle diseguaglianze nei Paesi e rende impossibile alle classi popolari avanzare le proprie rivendicazioni per vie istituzionali. E ciò vale anche al di fuori del quadro istituzionale, come nel caso degli scioperi e di altre iniziative popolari, a causa dell’assenza di diritti e di quadri democratici. Io sostengo che sono questi fattori socioeconomici e politici che hanno prodotto le condizioni materiali dei sollevamenti.

Come ha sostenuto Trotskij, le classi popolari si orientano verso sollevamenti rivoluzionari quando intravedono la possibilità di trasformare la società: «In realtà, la sola esistenza di privazioni non basta per provocare un’insurrezione: se così fosse, le masse sarebbero sempre in rivolta. È necessario che la bancarotta del regime sociale, evidente in modo incontestabile, renda non più tollerabili queste privazioni e che nuove condizioni e nuove idee facciano intravedere la prospettiva di un esito rivoluzionario».

L’emergere di nuovi elementi, nuove idee e nuove condizioni – evidenziato dalle immagini delle centinaia di migliaia e dei milioni di persone nelle piazze della Tunisia, dell’Egitto e di altri Paesi della regione, che esigevano il rovesciamento delle dittature nelle settimane e mesi precedenti – ha avuto un ruolo considerevole in questa prospettiva. In Tunisia, l’Unione generale dei lavoratori tunisini (UGTT) ha spesso avuto un ruolo di primo piano nell’opposizione ai regimi autoritari, nonostante che questo sindacato sia stato gravemente indebolito da un combinarsi di fattori: repressione, privatizzazione del settore pubblico e in certi casi anche compromissione della sua direzione con il regime. Nel 2008, in effetti, alla base delle rivolte dei minatori della regione di Gafsa vi sono membri dell’UGTT, che appoggeranno il movimento per più di un anno.

L’Egitto ha conosciuto il più grande movimento sociale dalla Seconda guerra mondiale, con scioperi e occupazioni in diversi settori. Gli scioperi negli stabilimenti di Mahalla el-Kubra, nel 2008, sono una testimonianza della forza del movimento operaio, nonostante la repressione delle forze di sicurezza. Tutte queste lotte hanno progressivamente aperto la strada alla formazione di sindacati indipendenti, che hanno avuto un ruolo decisivo (anche se non ufficialmente riconosciuto) nel rovesciamento di Mubarak e nei primi anni delle sollevazioni.

Ciò ha portato a un punto di svolta nella mentalità di gran parte della popolazione della regione: la possibilità di rovesciare i capi di Stato mediante mobilitazioni di massa appariva una soluzione praticabile.

Sollevamenti popolari nel MOAN: inizio d’una resistenza globale

Mentre il primo decennio del XXI secolo è stato segnato dalla cosiddetta “guerra contro il terrorismo” e dalla crisi finanziaria del 2008, lo scoppio dei sollevamenti popolari nella regione del MOAN ha inaugurato un decennio di resistenze all’ordine capitalista e autoritario cui siamo sottoposti. La scintilla del sollevamento popolare s’è sprigionata in Tunisia, per poi propagarsi rapidamente all’Egitto e al resto della regione. Ne è conseguita la caduta di dittature (Ben Ali, Mubarak, Gheddafi e Ali Abdallah Saleh) al potere da decenni.

Il maggior risultato di questi sollevamenti popolari è stato quello, molto probabilmente, di far rivivere l’idea della rivoluzione come una situazione in cui solo le masse, sviluppando il proprio potenziale di mobilitazione, possono ottenere un cambiamento mediante l’azione collettiva. È l’abc della politica rivoluzionaria, ma si tratta di una idea che nel corso degli ultimi decenni era caduta ampiamente in discredito presso consistenti settori della sinistra.

Inoltre, i processi rivoluzionari della regione si sono estesi ad altre parti del mondo, in particolare allo Stato spagnolo (Movimento degli indignati) e agli Stati Uniti (Occupy Wall Street), così come a certi Stati dell’Africa subsahariana, come il Burkina Faso (contro l’aumento dei prezzi e la repressione).

Alla fine del 2018 e nel 2019, poi, nel MOAN si è manifestata una “seconda ondata” di processi rivoluzionari: Sudan, Algeria, Libano, Iraq. Dopo 30 anni di potere, altri due dittatori sono stati rovesciati, mentre le classi dirigenti neoliberiste e confessionali libanese e irachena sono state sfidate.

Questa “seconda ondata” si è prodotta nel bel mezzo della diffusione di mobilitazioni popolari di massa in tutto il mondo: movimenti di protesta contro l’autoritarismo, come per esempio a Hong Kong o in Catalogna (dove il diritto all’autodeterminazione continua a essere calpestato e sottoposto a repressione dalle autorità), mentre dall’America meridionale al Medio Oriente manifestazioni di massa e scioperi si sono avuti dopo l’introduzione di nuove misure di austerità e di nuove tasse, che aumentavano ancor più il costo della vita. Inoltre, dagli Stati Uniti alla Polonia, si sono avuti scioperi e manifestazioni femministe di massa contro le offensive reazionarie che attaccavano i diritti delle donne. E nel 2020 è stata la volta del movimento Black Lives Matter a scuotere l’ordine capitalista e razzista americano, mentre un po’ ovunque nel mondo si svolgevano scioperi di massa per il problema ecologico.

Tutte queste mobilitazioni popolari internazionali rientrano in un quadro di radicalizzazione dei movimenti di protesta, e in particolare di quelli ecologisti e femministi, contro un sistema capitalista che sfrutta e opprime l’umanità e distrugge l’ambiente in nome del profitto. L’irruzione in questo quadro della pandemia del Covid-19 è a sua volta diventata un potente indicatore di tutte queste diseguaglianze.

Offensive controrivoluzionarie

Esattamente come lo scoppio di processi rivoluzionari regionali ha avuto importanti conseguenze non solo a livello regionale, ma anche a livello internazionale, pure le brutali reazioni alle classi popolari del MOAN si sono avute non solo da parte dei poteri locali e regionali, ma anche da parte dell’imperialismo. Allo stesso modo della Rivoluzione russa del 1917, le rivolte popolari nel MOAN rappresentano una minaccia mondiale, in particolare a causa delle risorse energetiche come il gas e il petrolio. Come ha detto in modo tuttora pertinente il geografo David Harvey nel 2003, «chi controlla il Medio Oriente controlla il rubinetto mondiale del petrolio, e chi controlla il rubinetto mondiale del petrolio può controllare l’economia mondiale, quanto meno nell’immediato futuro». Le monarchie del Golfo detengono circa il 40-45 % di tutte le riserve di petrolio identificate e il 20 % del gas mondiale, fornendo circa il 20 % della produzione internazionale di petrolio.

E in effetti, dopo un breve periodo di confusione, i regimi dittatoriali e le potenze regionali e imperialiste hanno reagito alle improvvise rivolte di massa.

I regimi autoritari e dispotici regionali hanno in generale dato prova di grande brutalità nel reprimere i movimenti di protesta, uccidendo e incarcerando in massa i manifestanti, di solito aiutati nella bisogna da altri attori, regionali e imperialisti, sia politicamente, sia economicamente e/o militarmente. Nella rivolta siriana sono morte centinaia di migliaia di persone, nella stragrande maggioranza a seguito della repressione dell’apparato militare di Damasco e dei suoi alleati, responsabili anche della distruzione di gran parte del Paese.

Nello stesso tempo, i movimenti fondamentalisti islamici, sostenuti da potenze regionali, hanno cercato di strumentalizzare o di distruggere il movimento sociale e democratico.

Le potenze imperialiste e regionali, minacciate dal propagarsi delle rivolte, sono intervenute in molteplici e diverse forme per porvi termine. Il relativo indebolimento della presenza e dell’influenza statunitense nella regione prima del 2011, causato dal fallimento dell’occupazione dell’Iraq e dalla crisi finanziaria mondiale del 2008, ha lasciato maggior spazio all’intervento di altre forze internazionali – come la Russia e, in minor grado, la Cina -, ma soprattutto ha consentito agli Stati regionali di assumere un ruolo crescente.

In questo contesto, si sono formate diverse alleanze di Stati regionali ed extra-regionali nel tentativo di porre fine alle rivolte: l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, appoggiati dagli Stati Uniti, sono intervenuti militarmente nel Bahrein e hanno scatenato una guerra contro lo Yemen (in entrambi i casi con il sostegno iniziale del Qatar), mentre l’Iran e la Russia sono intervenuti in Siria. Anche Teheran e i suoi alleati in Iraq e in Libano si sono opposti ai movimenti di protesta di questi due ultimi Paesi, non esitando nella repressione. A parte queste due alleanze, anche la Turchia – con l’appoggio politico del Qatar – ha avuto un ruolo determinante, appoggiando i Fratelli musulmani e altri movimenti fondamentalisti islamici e, soprattutto, intervenendo sempre più in Siria nelle regioni dominate dal PYD [Partito d’unione democratica], la branca locale del PKK [Partito dei lavoratori del Kurdistan], proseguendo così nella sua guerra contro l’autodeterminazione dei curdi.

Tuttavia, non si deve pensare che le rivalità delle potenze imperialiste e regionali non possano essere accantonate quando i loro interessi siano in gioco, tanto più quando i rapporti di interdipendenza sono molto stretti. Gli Stati capitalisti sono spesso in continua concorrenza tra loro per accumulare capitale e realizzare profitti, ma nello stesso tempo possono avere interessi di classe in comune che possono spingerli ad accordarsi e a unirsi di fronte a minacce dal basso, come i sollevamenti popolari. Tutti questi regimi hanno per nemici i processi rivoluzionari regionali. Quel che loro interessa è una situazione politica stabile che consenta loro di costruirsi e svilupparsi economicamente e politicamente, ai danni delle classi popolari. Ne è un ultimo esempio l’avvio di una riconciliazione fra il Qatar, da una parte, e l’Arabia Saudita (e in minor misura gli Emirati arabi Uniti), dall’altra. Ciò che potrebbe aprire la strada, in un prossimo futuro, a un riavvicinamento fra l’Arabia Saudita e la Turchia.

L’intervento delle potenze regionali e imperialiste riflette la loro decisa volontà di schiacciare le rivoluzioni di massa, impedendone la diffusione. Sono coscienti che un loro successo minerà le basi della propria egemonia e/o del proprio potere.

In questa offensiva controrivoluzionaria rientrava anche l’intensificazione degli attacchi contro i Palestinesi. Sotto l’amministrazione di Donald Trump, l’imperialismo statunitense ha fortemente sostenuto (più delle amministrazioni precedenti) lo Stato coloniale di Israele con il suo apartheid. Oltre a ciò, i processi di normalizzazione dei rapporti fra Israele e i suoi alleati reazionari della regione, e in particolare le monarchie del Golfo – che peraltro nella loro maggioranza intrattenevano già rapporti con Israele -, hanno lo scopo di isolare ancor più la causa palestinese, di rafforzare un’alleanza regionale sostenuta dagli Stati Uniti e contrapposta all’Iran, garantendo così la stabilità autoritaria neoliberista nella regione. La nuova amministrazione Biden proseguirà probabilmente sulla stessa strada. Nello stesso tempo, l’annuncio della normalizzazione diplomatica fra il Sudan e Israele serve a rafforzare il campo militare reazionario contro i settori dell’opposizione che rappresentano il movimento di protesta nel governo di transizione. Contemporaneamente alla firma degli accordi di normalizzazione diplomatica con Israele, il regime sudanese otteneva oltre un miliardo di dollari dagli Stati Uniti: un aiuto per facilitargli il rimborso del suo debito nei confronti della Banca mondiale, che ammonta a oltre 60 miliardi di dollari. Alcune settimane prima, il nome del Sudan era stato cancellato dalla lista statunitense dei Paesi accusati di finanziare il terrorismo. Nel caso del Marocco, infine, per facilitare la normalizzazione dei rapporti fra Tel Aviv e Rabat gli Stati Uniti avevano riconosciuto la sovranità marocchina sul Sahara Occidentale occupato.

I movimenti di protesta hanno dunque dovuto affrontare diversi attori controrivoluzionari poco disposti ad accettare mutamenti democratici e socioeconomici radicali. In questa prospettiva, è importante comprendere che una controrivoluzione non si limita a ripristinare la situazione precedente, ma che per molti aspetti la peggiora, accentuando autoritarismo, repressione e politiche neoliberiste.

Ancor più neoliberalismo

Gli Stati della regione hanno approfittato delle varie crisi provocate dai sollevamenti popolari, dalle guerre, dal calo del prezzo del petrolio e, più recentemente, dalla pandemia del Covid-19 e dalla recessione mondiale che l’accompagna, per ristrutturare e attuare cambiamenti che prima sarebbero apparsi impensabili, come l’estensione dell’economia di mercato a settori economici sino ad allora dominati dalle strutture statali.

Nello stesso tempo, i regimi autoritari e dispotici hanno spesso usato la pandemia per intensificare la repressione dei movimenti di protesta. La pandemia ha consentito loro di imporre misure di confinamento non tanto per ragioni sanitarie, per proteggere la salute delle classi popolari, ma per farla finita con i movimenti d’opposizione. Sono stati presi di mira i media, sono stati arrestati gli attivisti che ponevano in dubbio i bilanci ufficiali sulla diffusione della pandemia, si sono minacciati di pesanti multe e di pene di prigione tutti coloro che non rispettavano le misure di confinamento.

Diversi Paesi del Medio Oriente hanno adottato o promosso una legislazione sul Partenariato pubblico-privato (PPP) per accelerare la privatizzazione dei servizi e delle infrastrutture pubblici. Le PPP sono per esempio un elemento fondamentale nella strategia economico-politica di Vision 2030, promossa in Arabia Saudita dal principe Mohammad bin Salman. Il Programma di trasformazione nazionale 2020, presentato dopo Vision 2030, espone nel dettaglio la politica economica del nuovo gruppo dirigente saudita, ponendo il capitale al centro dell’economia del Paese. Il governo saudita ha annunciato di aver intenzione di organizzare dei PPP per numerosi servizi, educazione, sanità e abitazioni comprese. Un piano che il «Financial Times» ha descritto come una sorta di «thatcherismo saudita». Nello stesso tempo, Riyadh ha approfittato della pandemia per introdurre misure d’austerità: riduzione dei sussidi, eliminazione dell’indennità per il costo della vita, aumento delle imposte indirette (forte aumento dell’IVA, dal 5 al 15 %). Ciò non ha comunque impedito al fondo sovrano del regno saudita di investire, all’inizio della pandemia, otto miliardi di dollari nei colossi dell’economia mondiale, dalla Boeing a Facebook.

Similmente, anche il regime siriano ha impresso un’accelerazione alla sua politica neoliberista dopo il sollevamento del 2011 e la crescente militarizzazione del conflitto a partire dal 2012. Nel gennaio 2016, sei anni dopo la sua prima redazione, ha approvato una legge PPP, che consente ai privati di gestire e sviluppare i beni statali in tutti i settori economici, a eccezione del petrolio. La “Nuova strategia economica”, nota come Partenariato nazionale, inaugurata nel 2016, cita la legge PPP come un punto di riferimento.

Questo approfondimento autoritario delle politiche neoliberiste non ha fatto altro che aumentare la diseguaglianza sociale, nonché la collera per l’assenza di democrazia. Il MOAN nel suo complesso registra uno dei più alti livelli di diseguaglianza al mondo: l’1 e il 10 % dei più ricchi detengono, rispettivamente, il 30 e il 64 % dei redditi, contro il 9,4 % posseduto dal 50 % della popolazione, i più poveri. Nella regione, vi sono 37 miliardari che, da soli, detengono tanta ricchezza quanta ne ha la metà più povera di tutti i cittadini adulti. Fra il 2010 e il 2019, in Egitto, Giordania, Libano e Marocco il numero di persone con un patrimonio pari o superiore ai cinque milioni di dollari è aumentato del 24 %, e la loro ricchezza complessiva è cresciuta del 13,27 %, passando da 195,5 a 221,5 miliardi di dollari.

La pandemia, dal canto suo, ha ulteriormente allargato il fossato fra le élites economiche dirigenti e le classi popolari. Il 76 % di tutti i redditi è ormai nelle mani del 10 % dei più ricchi. In un rapporto di Oxfam, reso pubblico nell’agosto 2020, si stima che la contrazione economica in seguito alle misure adottate dagli Stati per contenere l’epidemia precipiterà altri 45 milioni di persone nella povertà in tutta la regione. La situazione dei rifugiati e dei lavoratori migranti, già di per sé molto precaria, s’è ulteriormente aggravata, spesso accompagnata da discorsi e comportamenti razzisti.

Queste dinamiche regionali si sono sviluppate durante crisi economiche, guerre e, ora, epidemie: non si tratta pertanto di misure pragmatiche o “tecnocratiche”, come spesso si è cercato di far credere. Devono piuttosto essere considerati modi per trasformare le condizioni generali d’accumulazione capitalistica e per rafforzare le reti economiche legate ai regimi, mettendo in atto misure d’austerità.

Allo stesso modo, il problema del debito ha assunto particolare importanza. In questi Paesi, il debito è servito, e continua a servire, come strumento di sottomissione politica e meccanismo per trasferire il reddito da lavoro al capitale locale e, soprattutto, internazionale. Le potenze imperialiste hanno intensificato questa dinamica, esigendo il pagamento del debito attraverso le istituzioni finanziarie internazionali. Rivelatori sono i casi dell’Egitto, del Sudan, della Tunisia – ma anche quelli del Libano e della Giordania -, con l’accumulazione di debiti astronomici. Il pagamento o meno del debito è uno dei principali discrimini fra chi persegue un mutamento radicale e chi vi si oppone.

Eloquente l’esempio della Tunisia, il cui governo si indebita sempre più con i creditori stranieri. Nel 2020 il debito estero rappresentava circa i due terzi di quello pubblico, il che ha sollevato molti interrogativi circa gli interessi del debito, la loro sostenibilità e le risorse pubbliche che dovrebbero essere riorientate in questo senso a scapito di obiettivi più produttivi o del sistema di protezione sociale. Mentre la democratizzazione del Paese ha fatto considerevoli progressi dal 2011 – nonostante i numerosi ostacoli e il ricorso continuo a forme di repressione -, le condizioni socioeconomiche delle classi popolari si sono peggiorate sotto molti aspetti. Da una parte il FMI ha concesso alla Tunisia 3 miliardi di euro, a patto della adozione di misure di austerità (con la collaborazione delle élites dirigenti locali), mentre dall’altra il deprezzamento del dinaro nel 2017 e il picco di inflazione che ne è derivato hanno ancor più impoverito le classi popolari. Anche la disoccupazione è aumentata, e l’emigrazione illegale verso l’Europa dal 2011 ha toccato punte da record. I tunisini rappresentano la più numerosa nazionalità di coloro che raggiungono le coste italiane (nel 2020 sono quintuplicati rispetto al 2019). Infine, nei primi dieci mesi del 2019 in Tunisia sono state contate oltre 6.500 manifestazioni, in gran parte contro le politiche economiche e sociali.

La sfida della sinistra: la costruzione di uno strumento politico per resistere

Le rivolte di massa hanno evidenziato l’estrema debolezza della sinistra radicale e della classe operaia organizzata, incapaci di intervenire fra le classi popolari come forza politica centrale e di contribuire alla loro autorganizzazione per dare una risposta alle rivendicazioni economiche e politiche.

Lo sviluppo d’organizzazioni classiste di massa e di organizzazioni politiche progressiste ha fatto crudelmente difetto. All’inizio in Egitto si sono avute grandi lotte economiche, con sindacati indipendenti in crescita, ma senza che vi fosse uno strumento politico di dimensioni sufficienti per articolare le rivendicazioni di classe e organizzarsi a livello di massa.

La Tunisia e il Sudan erano le uniche eccezioni. In entrambi i Paesi l’esistenza di organizzazioni sindacali di massa – come la UGTT tunisina e le associazioni professionali sudanesi – è stato un elemento decisivo per il successo delle lotte delle masse. In entrambi i Paesi, egualmente, le organizzazioni femministe di massa hanno svolto un ruolo particolarmente importante nel promuovere le lotte per i diritti delle donne e per i diritti democratici e socioeconomici, nonostante una certa loro fragilità e un loro non completo consolidamento.

Tunisi e Khartoum sono comunque il bersaglio di diversi attori controrivoluzionari, locali e internazionali, intenzionati a preservare il dominio delle classi dirigenti e di contrastare ogni mutamento radicale. E in entrambi i casi vi sono degli altri ostacoli: sia l’UGTT che le associazioni professionali sudanesi, soprattutto a causa dell’orientamento politico dei loro dirigenti, inseguono spesso forme di collaborazione e di intesa con le élites al potere.

Nella maggior parte degli altri Paesi della regione, invece, non esistevano forze simili o con una tale livello di organizzazione di massa: ciò che indeboliva il movimento di protesta. Strumenti di questo tipo devono assolutamente essere costruiti in vista delle future lotte. La sinistra deve assumere un ruolo centrale nella costruzione e nello sviluppo di ampie strutture politiche alternative.

Unitamente a questa necessità, la sinistra deve elaborare una strategia politica che non si ponga unicamente l’orizzonte d’una rivoluzione politica, ma anche quello di una rivoluzione sociale, che modifichi radicalmente le strutture della società e il modo di produzione. Tanto più che l’unico modo di garantire a lungo termine le conquiste d’una rivoluzione politica è quello di realizzarne anche una sociale. In questo senso, non ci si deve fare alcuna illusione circa le concezioni della “rivoluzione per tappe”: prima una rivoluzione politica realizzata da un’ampia coalizione interclassista, e poi, dopo un periodo indeterminato, cercare di realizzare una rivoluzione sociale. Si tratta di una concezione meccanicistica della storia. Nessuno dei due obiettivi sarà raggiunto. Come scrive il marxista francese Daniel Bensaïd: «Fra la lotta sociale e la lotta politica non si frappongono né la Muraglia cinese né divisioni a compartimenti stagni. La politica nasce e s’inventa nel sociale, nell’enunciazione di nuovi diritti che trasformino le vittime in soggetti attivi».

Le ultime manifestazioni in Tunisia, in occasione del decimo anniversario del rovesciamento del dittatore Ben Ali, dimostrano quanto sia diffusa in ampi settori delle classi popolari la collera per i mali economici, le diseguaglianze sociali, la disoccupazione, la corruzione, ma più in generale per la delusione per le aspettative andate deluse di una rivoluzione sociale. La repressione è stata violenta, e oltre mille persone, compresi dei minori, sono state arrestate dalla polizia e dalle forze di sicurezza. Alcuni sono stati arrestati a casa propria, non perché avessero partecipato alle proteste, ma per aver scritto messaggi di appoggio al movimento su Facebook.

È dunque importante sviluppare un progetto di classe indipendente per la promozione e la difesa dei diritti democratici e socioeconomici. Sin dal 2011, sfortunatamente, ci sono stati ampi settori della sinistra che hanno collaborato con soggetti controrivoluzionari, con regimi autoritari e fondamentalisti islamici. La collaborazione con regimi autoritari ha portato – e non poteva essere altrimenti – a risultati catastrofici, riducendo ancor più gli spazi democratici che consentivano ai lavoratori e agli oppressi di organizzarsi per la propria liberazione. I vecchi regimi continuano a essere il nemico principale delle forze rivoluzionarie della regione. E i movimenti fondamentalisti islamici non rappresentano alcuna alternativa: siano o meno al potere, essi perseguono i lavoratori, i sindacati, le organizzazioni democratiche, sostenendo l’economia neoliberista e le politiche sociali reazionarie. Anch’essi fanno parte della controrivoluzione.

Invece di guardare all’una o all’altra di queste forze, la sinistra deve concentrarsi sulla costruzione di un fronte indipendente, democratico e progressista, che cerchi di stimolare l’autorganizzazione dei lavoratori e degli oppressi. In questa situazione, le lotte degli operai da sole non sono in grado di unificare le classi popolari. I protagonisti di queste lotte devono inoltre perseguire la liberazione di tutti gli oppressi. Il che significa fare proprie con determinazione anche le rivendicazioni delle donne, delle minoranze religiose, delle comunità LGBT e dei gruppi radicali ed etnici oppressi. Qualsiasi titubanza in questo senso non consentirà alla sinistra di conseguire l’unità dei salariati per la trasformazione radicale della società.

C’è un ulteriore elemento da prendere in considerazione: l’assenza di una visione regionale e internazionalista nella sinistra. È necessario promuovere reti di collaborazione in tutta la regione per favorire la costruzione di un’alternativa progressista e per opporsi alle offensive controrivoluzionarie, locali, regionali e internazionali. Una sconfitta in un Paese è una sconfitta per tutti; una vittoria in un Paese è una vittoria per tutti.

I regimi dispotici lo sanno perfettamente, e anche la sinistra dovrebbe impararlo. Le classi dirigenti regionali scambiano fra loro esperienze e lezioni, per meglio difendere l’ordine autoritario e neoliberista.

Le forze progressiste devono avviare una più stretta collaborazione a livello regionale e internazionale. Nessuna soluzione socialista si potrà avere in un solo Paese o in una regione come il MOAN, campo di battaglia per le potenze regionali e imperialiste.

Dobbiamo aspettarci altre esplosioni di collera, perché le condizioni all’origine dei sollevamenti non sono state migliorate, e anzi si sono aggravate. Tuttavia, queste condizioni non si traducono necessariamente e direttamente in opportunità politiche, soprattutto in Paesi che hanno conosciuto guerre e/o profonde crisi economiche. La sinistra ha bisogno di costruire (o di contribuire alla costruzione di) organizzazioni e fronti uniti capaci coordinare le lotte contro l’autocrazia, contro lo sfruttamento e contro l’oppressione; in grado di proporre un’autentica alternativa politica alle classi popolari. Una sfida che non riguarda solo il MOAN, ma tutto il mondo.

Conclusioni

Il processo rivoluzionario nel MOAN è parte integrante della resistenza popolare mondiale all’ordine neoliberista e autoritario. Non c’è alcun fattore di carattere arabo o islamico che possa impedire alle classi popolari della regione di lottare per le stesse rivendicazioni per le quali lottano le classi popolari del mondo intero: democrazia, giustizia sociale, eguaglianza, laicità eccetera. Ciò nonostante, nessuno può illudersi che il percorso sia facile: non è mai stato così nella storia.

«Credere che la rivoluzione sociale sia immaginabile senza le insurrezioni delle piccole nazioni nelle colonie e in Europa, senza le esplosioni rivoluzionarie di una parte della piccola borghesia, con tutti i suoi pregiudizi, senza il movimento delle masse proletarie e semiproletarie arretrate contro il giogo dei grandi proprietari fondiari, della Chiesa, contro il giogo monarchico, nazionale, ecc., significa rinnegare la rivoluzione sociale», scriveva Lenin oltre un secolo fa. «Ecco: da un lato si schiera un esercito e dice: “Siamo per il socialismo”, da un altro lato si schiera un altro esercito e dice: “Siamo per l’imperialismo”, e questa sarà la rivoluzione sociale! Soltanto da un punto di vista così pedantesco e ridicolo sarebbe possibile affermare che l’insurrezione irlandese è un “putsch”. Colui che attende una rivoluzione sociale “pura”, non la vedrà mai. Egli è un rivoluzionario a parole che non capisce la vera rivoluzione».

Un processo rivoluzionario non è monocolore, omogeneo, né mai lo sarà. In questo senso, il ruolo dei rivoluzionari e dei progressisti è del tutto evidente: costruire un’alternativa sociale e democratica inclusiva e lottare contro tutti i soggetti controrivoluzionari, siano essi locali, regionali o internazionali.

I processi rivoluzionari sono fenomeni a lungo termine, contraddistinti da fasi di intense mobilitazioni e da fasi di relativa stagnazione, a seconda dei contesti. E vi possono essere anche delle fasi di sconfitta. Tuttavia, ciò non significa affatto, per quanto riguarda la regione del MOAN, la cessazione dei sollevamenti. Non siamo che all’inizio…

* Joseph Daher, militante siriano, insegna all’Università di Losanna e all’European University Institute di Firenze. Ha fondato il sito web Syria Freedom Forever, dedicato alla costruzione d’una Siria laica e socialista. Ha pubblicato alcuni saggi, fra i quali Le Hezbollah, un fondamentalisme religieux à l’épreuve du néoliberalisme (Éditions Syllepse, Paris, 2019) e Syria After the Uprisings. The Political Economy of State Resilience (Pluto Press, London 2019). Il testo originale Dix ans après le début des soulèvements populaires, ce n’est que le début…, è apparso su «Inprecor», n° 681-682, janvier-février 2021, pp. 41-46. La traduzione in italiano è stata curata da Cristiano Dan per il blog antoniomoscato.altervista.org

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