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Hossam el-Hamalawy è un giornalista indipendente e blogger del sito 3arabawy. Mark LeVine, professore all’Università della California-Irvine, è riuscito a contattarlo via Skype al fine di ottenere delle informazioni di prima mano sugli avvenimenti che si svolgono in Egitto.

 Ci parla qui delle cause e dello sviluppo di queste proteste di massa; del ruolo giocato dalla questione palestinese e dalla rivoluzione tunisina, degli scioperi operai e del movimento sindacale, degli islamisti, della gioventù e dell’uso di Internet nella rivolta attuale.Questo colloquio è stato condotto il 30 gennaio. (Red)

 

Per quale ragione si doveva attendere che scoppiasse la rivoluzione in Tunisia perché gli egiziani uscissero in massa nelle strade?

 

In Egitto, diciamo che la rivoluzione in Tunisia è stata più un catalizzatore che un istigatore, perché le condizioni oggettive per un sollevamento esistevano già nel paese. Da diversi anni la rivolta era nell’aria. Noi abbiamo anche avuto due mini-intifada o “mini-Tunisia”, nel 2008. La prima, è stata il sollevamento a Mahalla, nell’aprile del 2008, seguita da un’altra a Borollos, nel nord del paese.

Le rivoluzioni non sorgono dal niente. Non abbiamo, meccanicamente, una mobilitazione in Egitto perché ce n’è una in Tunisia. Non è possibile isolare le proteste attuali dagli ultimi quattro anni di scioperi portati avanti dai lavoratori in Egitto, o dagli avvenimenti internazionali come l’Intifada Al-Aqsa e l’invasione dell’Irak da parte degli Stati Uniti.

Lo scoppio dell’Intifada Al-Aqsa è stato particolarmente importante, perché nei primi anni ’80 e ’90, l’attivismo nelle strade era stato effettivamente impedito dal governo con il pretesto di lottare contro i ribelli islamisti. Le mobilitazioni si sono ridotte a quelle dei campus universitari o a quelle dei partiti. Ma quando è scoppiata l’Intifada, nel 2000 e la catena Al-Jazeera ha cominciato a trasmettere le immagini, ha ispirato la nostra gioventù a prendere le strade, nello stesso modo in cui oggi la Tunisia ci ha ispirati.

 

Come si sviluppano le proteste?

 

È ancora troppo presto per dire come si evolveranno. È già un miracolo che continuino dopo mezzanotte, nonostante la paura e la repressione. Ma la situazione è arrivata a un punto tale che le persone ne hanno semplicemente abbastanza, la misura è colma. Anche se le forze di sicurezza arriveranno a stroncare le proteste di oggi, non potranno fermare quelle che si succederanno la settimana prossima, o il mese prossimo, o più tardi nell’anno. C’è, definitivamente, un cambiamento nella mentalità e nel coraggio del popolo.

Lo Stato si è servito del pretesto della lotta contro il terrorismo negli anni ’90 per farla finita con ogni dissidenza nel paese, un trucco usato da tutti i governi, compresi gli Stati Uniti. Ma, una volta che l’opposizione a un regime passa per delle proteste di massa, è molto difficile soffocare una tale dissidenza. Si può pianificare la liquidazione di un piccolo gruppo di terroristi che combatte tra i burroni, ma cosa possono fare contro decine di migliaia di manifestanti nelle strade? Non possono ammazzarli tutti. Non hanno nemmeno la garanzia che i soldati faranno una cosa simile, che sparino contro i poveri.

 

Che relazione c’è tra gli avvenimenti nella vicina regione e quelli che si sviluppano in Egitto?

 

Bisogna capire che il regionale è locale in questo paese. Nel 2000, le proteste non sono cominciate come proteste contro il regime, bensì contro Israele e a sostegno dei palestinesi. La stessa cosa è successa con l’invasione dell’Irak da parte degli Stati Uniti, tre anni dopo. Ma, una volta che scendi in strada e che affronti la violenza di un regime, ti poni delle domande: perché Mubarak invia dei soldati a reprimere i manifestanti invece di lottare contro Israele? Perché il paese esporta cemento in Israele affinché sia usato per costruire le colonie invece di aiutare i palestinesi a ricostruire le loro case? Perché la polizia è così brutale con noi quando noi vogliamo solo esprimere la nostra solidarietà con i palestinesi, pacificamente?

Così, i problemi regionali, come Israele e l’Irak diventano questioni locali. In poco tempo, gli stessi manifestanti che lanciavano slogan pro-palestinesi, hanno cominciato a farlo contro Mubarak. Il momento decisivo e specifico, in termini di protesta, è stato il 2004, quando la dissidenza interna ha cominciato a manifestarsi.

 

In Tunisia, i sindacati hanno giocato un ruolo chiave nella rivoluzione, visti i loro effettivi e il loro attivismo, hanno impedito l’annientamento delle proteste e offerto la loro struttura organizzativa. Qual è il ruolo del movimento operaio in Egitto nel sollevamento attuale?

 

Il movimento sindacale egiziano è stato duramente represso negli anni ’80 e ’90 dalla polizia, che ha usato munizioni da guerra contro degli scioperanti pacifici nel 1989 durante gli scioperi nell’industria siderurgica, e nel 1994 contro quelli nel settore tessile. Ma dal dicembre 2006, il nostro paese conosce le più grandi e sostenute ondate di scioperi dal 1946. Il detonatore, è stato lo sciopero nell’industria tessile della città di Mahalla, nel Delta del Nilo, città che concentra la più grande forza lavoro del Medio Oriente con più di 28’000 operai. È cominciato su questioni “economiche”, ma si è esteso a tutti i settori della società, ad eccezione della polizia e delle forze armate.

Come risultato di questi scioperi, abbiamo conquistato la creazione di 2 sindacati indipendenti, i primi dal 1957; quello dei controllori delle contribuzioni, che riunisce 40’000 impiegati del settore pubblico, e quello dei tecnici della salute, con più di 30’000 membri, creato il mese scorso, al di fuori dei sindacati controllati dallo Stato.

Ma è vero che c’è una differenza importante tra la situazione da noi e la Tunisia; questa risiede nel fatto che, anche se questo paese era una dittatura, esisteva una federazione sindacale semi-indipendente. Anche se la direzione collaborava con il regime, i membri alla base erano sindacalisti militanti. Di modo che, quando è arrivato il momento degli scioperi generali, i sindacati hanno potuto giocare il loro ruolo. Ma qui, in Egitto, abbiamo un vuoto, che speriamo di riempire molto velocemente. I sindacalisti indipendenti, sono stati soffocati da una vera e propria caccia alle streghe dal momento in cui tentavano di stabilirsi, hanno subito gli attacchi dei sindacati di Stato, o sostenuti dallo Stato, ma sono comunque riusciti a rinforzarsi, nonostante questi tentativi di distruggerli.

 

È anche vero che, in questi ultimi giorni, la repressione si è essenzialmente diretta verso i manifestanti nelle strade, che non sono necessariamente dei sindacalisti. Queste proteste hanno riunito un vasto spettro di egiziani, compresi figli dell’élite. In modo tale che abbiamo una combinazione di poveri e di giovani delle città, assieme alla classe media e ai figli dell’élite. Penso che Mubarak è arrivato a riunire contro di lui tutti i settori della società, ad eccezione della sua cerchia intima di complici.

 

La rivoluzione tunisina è stata descritta come diretta dalla gioventù e dipendente, per il suo successo, dalla tecnologia offerta da social network come Facebook e Twitter. E ora le persone si focalizzano sulla gioventù in Egitto come principale catalizzatore. Si tratta di una “intifada giovanile” e potrebbe avere luogo senza Facebook e altre tecnologie mediatiche?

 

Sì, si tratta certamente di un’intifada della gioventù. Quanto a Internet, non gioca un ruolo che nella diffusione della parola e delle immagini che accadono prima di tutto sul terreno, nella strada. Noi non usiamo Internet per organizzarci. Lo usiamo per far conoscere quello che facciamo sul terreno, nella speranza d’incoraggiare gli altri a partecipare alle azioni.

 

(…)

 

Esiste un programma ideologico più ampio dietro queste proteste, o si tratta solo di sbarazzarsi di Mubarak?

 

Ogni settore ha le proprie ragioni per uscire nelle strade, ma suppongo che se il nostro sollevamento arriva a un successo e noi cacciamo Mubarak, le divisioni appariranno. I poveri vorranno dare impulso a una rivoluzione   con posizioni più radicali, come   la redistribuzione della ricchezza e la lotta contro la corruzione, mentre i “riformisti”vorranno mettervi un freno, fare pressione perché i cambiamenti “vengano dall’alto”, e limitare un po’ i poteri, pur mantenendo  l’essenziale dello Stato.

 

Qual è il ruolo giocato dai Fratelli Musulmani e qual è l’impatto del loro distanziarsi dalle proteste attuali?

 

I Fratelli Musulmani hanno sofferto divisioni importanti dopo lo scoppio dell’Intifada Al-Aqsa. La loro partecipazione al Movimento di solidarietà con la Palestina, quando ha affrontato il regime, è stata disastrosa. Di base, ogni volta che i loro dirigenti giungono a un compromesso con il regime, e particolarmente gli accoliti della loro attuale guida suprema, i quadri della base si ritrovano demoralizzati. Conosco personalmente numerosi giovani Fratelli che abbandonano l’organizzazione alcuni per raggiungere altri gruppi, altri rimangono indipendenti. Nella misura in cui l’attuale movimento di strada cresce e i quadri inferiori vi partecipano, cresce la divisione perché la direzione non può giustificare il fatto di non fare parte del sollevamento.

 

Che ruolo hanno gli Stati Uniti  in questo conflitto? Come vedono le persone della strada la loro attitudine?

 

Mubarak è il secondo beneficiario dell’aiuto estero degli Stati Uniti, dopo Israele. È conosciuto per essere il maggior sostegno degli Stati Uniti nella regione; è uno strumento docile della politica estera di Washington, un appoggio per la politica di sicurezza d’Israele e una garanzia per garantire il flusso continuo di petrolio mentre lascia i palestinesi in ginocchio. Di modo che non è un segreto che questa dittatura ha beneficiato del sostegno dei governi degli Stati Uniti dal primo giorno, anche durante la fallace retorica pro-democratica di Bush. Così, non ci si deve sorprendere di fronte alle dichiarazioni risibili della Clinton, che difende più o meno Mubarak, visto che uno dei pilastri della politica estera degli Stati Uniti è mantenere dei regimi stabili a spese della libertà e dei diritti civili.

Noi non ci aspettiamo niente da Obama, che consideriamo un grande ipocrita. Ma speriamo che il popolo statunitense – i sindacati, le associazioni di professori, le organizzazioni studentesche, i gruppi di attivisti -si pronunci in nostro favore e ci sostenga. Ciò che noi vogliamo, è che il governo degli Stati Uniti resti fuori da questa faccenda. Non vogliamo alcuna sorta di sostegno da parte sua, semplicemente che cessi immediatamente di appoggiare Mubarak, che ritiri tutte le sue basi militari dal Medio Oriente e cessi ugualmente di sostenere Israele.

In ultima istanza, Mubarak farà tutto ciò che potrà per mantenersi. Adotterà senza dubbio una postura “anti-USA” se pensa che potrà aiutarlo a salvarsi la pelle. Ma alla fine dei conti, è totalmente  screditato e prima di tutto interessato ai propri interessi; se stima che gli Stati Uniti lo abbandoneranno, andrà a cercare il sostegno altrove.

La verità è che qualsiasi governo “pulito” arriverà al potere in questa regione sarà confrontato con un conflitto aperto con gli Stati Uniti, perché sarà forzato a condurre una redistribuzione razionale delle ricchezze e finirla con il sostegno a Israele e alle altre dittature. Dunque non ci aspettiamo nessun aiuto dal governo degli Stati Uniti, solo che ci lasci in pace.

 

Questa intervista è apparsa in francese sul sito www.lcr-lagauche.be. La traduzione in italiano è stata curata dal redazione di Solidarietà.