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Scriviamo questo commento appena dopo l’esito della “mediazione” chiesta alle parti nazionali firmatarie della Convenzione nazionale dell’industria delle macchine alla fine della giornata di sciopero dello scorso 8 febbraio.

I lavoratori, come si ricorderà, sono scesi in sciopero per contestare un accordo, carpito in spregio della loro buona fede secondo quanto si è potuto appurare, che prevede l’aumento di mezz’ora di lavoro al giorno, cioè di 2 ore e ½ settimanali, naturalmente a parità di salario. Dopo la giornata di sciopero l’accordo è stato, almeno in parte, sospeso, in attesa per l’appunto che le parti firmatarie nazionali (cioè i sindacati firmatari della convenzione e l’associazione padronale) analizzino la situazione e verifichino se l’accordo in questione corrisponde effettivamente a quanto previsto dalla convenzione nazionale.

 

Disaccordo

 

L’incontro tra le parti nazionali si è concluso con un nulla di fatto. È stato impossibile, dicono le organizzazioni sindacali, trovare un accordo a causa della posizione del MEM (l’associazione padronale dell’industria delle macchine). Risultato: UNIA e Syna, i due sindacati firmatari del contratto (seppur minoritari rispetto ai sindacati degli impiegati) hanno deciso di ricorrere al tribunale arbitrale, organismo previsto dal contratto collettivo nel caso in cui le parti non arrivino ad un accordo.

Con lo stesso comunicato le organizzazioni sindacali affermano che le associazioni padronali si rendono responsabili di un’eventuale escalation del conflitto. Scrivono infatti i sindacati nel loro comunicato: “I sindacati, con il loro agire responsabile, hanno cercato di evitare che una situazione già tesa possa       ulteriormente acuirsi. Swissmem dovrà pertanto assumersi il rischio di una eventuale escalation del conflitto”.

 

Pace del lavoro e partenariato sociale

 

Questa ultima presa di posizione sindacale illustra bene quale oggi sia il problema. Nel settore dell’industria delle macchine vige la pace assoluta del lavoro che tutti i sindacati di fatto rispettano. Questo significa che ci si impegna a risolvere tutti i conflitti nell’ambito delle procedure arbitrali, senza ricorrere alla mobilitazione dei lavoratori, in particolare ad azioni di sciopero.

Queste limitazioni, sulle quali si è costruita una tradizione sindacale che ha portato all’indebolimento, spesso persino alla scomparsa, dell’azione sindacale sui luoghi di lavoro, orientano l’attività sindacale verso un quadro di concertazione sociale.

L’interesse della vicenda Trasfor sta proprio in questo: nel fatto che, per una volta, questa via della concertazione è stata sostituita dalla lotta dei lavoratori, appoggiati dai loro sindacati che hanno deciso di mobilitarsi di fronte a quello che appare loro come un’ingiustizia.

Cominciare uno sciopero è molto difficile nel contesto sociale nel quale viviamo: per le ragioni che abbiamo qui sopra evocate e perché il contesto economico e sociale di crisi non favorisce la “messa in gioco” di molte sicurezze (a partire dallo stesso posto di lavoro) nel momento in cui si entra in sciopero.

L’esito della mobilitazione dell’8 febbraio è stato contraddittorio. Da un lato ha dimostrato la disponibilità dei lavoratori a mobilitarsi contro un accordo che ritengono di non poter accettare; dall’altro questa forza, scaturita dalla mobilitazione, è stata dirottata verso un terreno, quello del partenariato sociale e della mediazione, sul quale i lavoratori non possono far valere la loro forza.

Questo anche perché, senza voler entrare nel merito concreto della vertenza. la convenzione nazionale delle macchine offre ampi spazi di manovra ai datori di lavoro.

Il famoso art. 57 al quale si è appellata la direzione dell’azienda per prolungare l’orario di lavoro (è il famigerato “articolo di crisi”) permette in realtà al padronato di derogare alle normali condizioni di lavoro per molte ragioni. Non solo per ragioni di crisi produttiva o commerciale, ma anche per riguadagnare spazi di concorrenza (attraverso un aumento di produttività ed una diminuzione dei costi). Come dire che quell’articolo in realtà è così flessibile che qualsiasi deroga rischia di venir giustificata.

Il momento dello sciopero, il rapporto di forza, era l’ideale per portare a termine la vertenza, imponendo il ritiro definitivo dell’accordo e, magari estendendo la discussione ad altre questioni importanti (a cominciare dai bassi livelli salariali). Si è invece voluto seguire la via contrattuale. Non crediamo, e le notizie di oggi lo confermano, che sia stata una buona scelta.

 

E ora?

 

Non ci pare che la via imboccato (quella di rivolgersi al tribunale arbitrale) sia la migliore dal punto di vista della mobiltazione. Anche perché, compiendo questo passo, i sindacati si impegnano a mettere la sordina al conflitto, cioè ad evitare una escalation del conflitto.

E il passare del tempo permette al padronato, all’interno dell’azienda, di riguadagnare terreno, di lavorare su paure e incertezze, di recuperare parte di quel rapporto di forza perso con l’azione di sciopero.

La lotta delle Officine ha insegnato molte cose, a cominciare dalla constatazione che il rapporto di forza sul terreno è l’unico che può permettere di ottenere soddisfazione alle proprie rivendicazioni. Una lezione che forse  gli attuali dirigenti sindacali non hanno capito del tutto.

 

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