La dimensione specificamente europea ha inasprito gli effetti della crisi globale. Da trent’anni a questa parte le contraddizioni del capitalismo sono state sormontate, riassumendo, attraverso un’enorme accumulazione di diritti fittizi sul plusvalore.
La crisi ha minacciato di distruggerli. I governi borghesi hanno deciso di preservarli dicendo che bisognava salvare le banche. Si sono perciò accollati questi debiti, senza chiedere niente, quasi, in contropartita. Eppure sarebbe stato possibile, a caldo, di mettere delle condizioni a questo salvataggio, per esempio con la proibizione dei prodotti speculativi e la chiusura dei paradisi fiscali; oppure con la presa a carico da parte delle banche di una parte del debito pubblico che questo salvataggio ha fatto improvvisamente aumentare.
Oggi siamo entrati nella seconda fase. Dopo aver trasferito il debito dal privato al pubblico, ora bisogna farlo pagare ai lavoratori. Questa terapia di choc prende la forma di piani di austerità, che sono tutti costruiti sul medesimo modello: riduzione delle spese socialmente utili e aumento delle imposte più inique. Non esiste alternativa a questa violenza sociale, se non quella di far pagare agli azionisti e ai creditori il costo del salvataggio del loro sistema. Tutto questo è chiaro e chiunque lo capisce.
Il fallimento di un progetto borghese
Ma ciò che oggi i lavoratori europei devono pagare, è anche il fallimento del progetto borghese di costruzione europea. Con la moneta unica, il patto di stabilità finanziaria, la deregolamentazione totale della finanza e dei movimenti di capitale, la borghesia europea pensava di aver costruito un buon sistema. Mettendo in concorrenza i salariati e i modelli sociali, la compressione dei salari diventava il solo mezzo per regolare la concorrenza intercapitalista e per approfondire le disuguaglianze favorevoli a una stretta cerchia sociale.
Ma questo modello non era praticabile, perché metteva il carro davanti ai buoi presupponendo un’omogeneità delle economie europee che non esisteva. Al contrario, la divergenza tra i paesi si è accresciuta a seconda del loro posto nell’economia mondiale e della loro sensibilità al corso dell’euro; la convergenza dei tassi di inflazione non si è verificata, e i bassi tassi di interesse hanno favorito le bolle immobiliari, ecc. Tutte le contraddizioni di una costruzione monca, che oggi gli euroliberali scoprono, esistevano già prima della crisi, ma quest’ultima le ha fatte esplodere sotto forma di attacchi speculativi contro i debiti pubblici degli stati più esposti.
Dietro il concetto astratto di “mercati finanziari” si nascondono di fatto i grandi gruppi finanziari europei, che utilizzano per speculare i capitali che gli Stati hanno loro prestato a tassi di interesse molto bassi. Questa speculazione è dunque possibile soltanto a causa del non intervento degli Stati, e bisogna intenderla come una pressione esercitata sui governi consenzienti per obbligarli a risanare i loro conti sulla pelle della popolazione e a proteggere gli interessi delle banche.
Due compiti immediati
Dal punto di vista dei lavoratori, i compiti immediati sono chiari: bisogna resistere ai piani di austerità e rifiutarsi di pagare il debito, che non è nient’altro che il debito della crisi. Il progetto alternativo in nome del quale si può sviluppare la resistenza sociale riposa sull’ esigenza di una diversa ripartizione delle ricchezze. Una simile esigenza è coerente: è infatti la compressione dei salari, altrimenti detto l’accaparramento di una parte crescente del plusvalore da parte della finanza, che ha condotto all’enorme accumulazione di debiti che ha condotto alla crisi. E`questa la vera base materiale di questa crisi.
L’alternativa passa in particolare attraverso una vera riforma fiscale che annulli i regali fatti da anni alle imprese e ai ricchi. Essa implica pure, in un modo o in un altro, l’annullamento del debito. Tra il debito e gli interessi sociali maggioritari l’incompatibilità è totale. Non può esserci esito progressista alla crisi senza rimettere in questione questo debito, che sia sotto forma di insolvenza o di ristrutturazione. D’altra parte, un certo numero di paesi arriveranno all’insolvenza, e perciò è tanto più importante anticipare questa situazione e dire come essa dovrà essere gestita.
Uscire dall’euro?
L’offensiva cui sono confrontati i popoli europei è sicuramente inasprita dal “busto” europeo. Per esempio, le banche centrali europee, contrariamente alla Federal Reserve degli Stati Uniti, non possono monetizzare il debito pubblico acquistando buoni del tesoro. L’uscita dall’euro permetterebbe di allentare questa morsa? E`quello che propone Costas Lapavitsas nel caso della Grecia, e questo quale misura immediata, senza aspettare, dice, che la sinistra si unisca per cambiare la zona euro, cosa che ritiene “impossibile”.
Quest’idea, che d’altronde viene avanzata anche altrove in Europa, si scontra con una prima obiezione: il fatto che la Gran Bretagna non faccia parte della zona euro non l’ha evidentemente protetta dall’austerità. Ed è anche facile capire perché l’estrema destra nazionalista chieda l’uscita dall’euro, come è il caso del Fronte nazionale in Francia. Invece è più difficile intuire quali potrebbero essere i meriti di una simile parola d’ordina dal punto di vista della sinistra radicale. Se un governo liberale dovesse giungere a prendere una simile misura sotto la pressione degli avvenimenti, è chiaro che sarebbe il pretesto per un’austerità ancora più dura di quella che conosciamo oggi, e che ciò non permetterebbe per nulla di stabilire un rapporto di forza più favorevole ai lavoratori. E` la lezione che possiamo tirare da tutte le esperienze passate.
Per un governo di sinistra, uscire dall’euro sarebbe un vero e proprio errore strategico. La nuova moneta sarebbe svalutata, poiché è in fondo l’obbiettivo perseguito. Ma questo aprirebbe immediatamente una breccia, di cui approfitterebbero immediatamente i mercati finanziari per iniziare un’offensiva speculativa. Questa scatenerebbe un ciclo svalutazione-inflazione-austerità. Inoltre il debito, sino ad allora quotato in euro o in dollari, aumenterebbe bruscamente dell’importo di questa svalutazione. Ogni governo di sinistra veramente deciso a prendere delle misure in favore dei lavoratori verrebbe sicuramente confrontato con forti pressioni del capitalismo internazionale. Da un punto di vista tattico sarebbe meglio, in questa prova di forza, utilizzare in maniera conflittuale l’appartenenza alla zona euro.
E` senz’altro vero che la costruzione europea fondata sulla moneta unica non è coerente e in ogni caso incompiuta. Essa si basa su una variabile di aggiustamento, il tasso di cambio, sulle differenze di evoluzione dei prezzi e dei salari all’interno della zona euro. I paesi della periferia hanno allora la scelta tra congelare i salari come fa la Germania da dieci anni a questa parte, oppure subire una diminuzione di competitività e delle perdite di mercato. Questa situazione conduce a una specie di vicolo cieco e non esistono soluzioni immediatamente applicabili: tornare indietro precipiterebbe l’Europa nel caos a scapito dei paesi più fragili; e mettere in atto una nuova logica di costruzione europea sembra un obiettivo fuori portata.
Se la zona euro scoppia, le economie più fragili verrebbero destabilizzate dagli attacchi speculativi. Nemmeno la Germania ci guadagnerebbe, nella misura in cui la sua moneta si apprezzerebbe in modo incontrollato, subendo quello che gli Stati Uniti cercano oggi di imporre a numerosi paesi con la loro politica monetaria (1).
Esistono altre soluzioni, che passano da una rifondazione totale dell’Unione europea: un budget alimentato da un’imposta unificata sul capitale e che finanzi dei fondi di armonizzazione e degli investimenti socialmente ed ecologicamente utili, una presa a carico mutualizzata dei debiti pubblici, ecc. Ma, ancora una volta, questa “uscita dall’alto” non è possibile a corto termine, non per mancanza di dispositivi alternativi, ma perché la loro applicazione presuppone un cambiamento radicale del rapporto di forze su scala europea.
Che fare allora in questa congiuntura estremamente difficile? La lotta contro i piani di austerità e il rifiuto di pagare il debito costituiscono la base di una controffensiva. Occorre in seguito, affinché le resistenze vengano rinforzate dall’affermarsi di un progetto alternativo, lavorare su un simile programma, articolando delle soluzioni “tecniche” con una spiegazione generale del contenuto di classe della crisi (2).
Il compito specifico della sinistra radicale e internazionalista è inoltre di combinare le lotte sociali condotte a livello nazionale con l’affermazione di un’altra Europa. Che cosa fanno da parte loro le borghesie? Esse si affrontano sulle politiche da condurre perché difendono degli interessi che restano in gran parte nazionali e contraddittori. Ma appena si tratta di imporre l’austerità alle rispettive classi operaie, presentano un fronte comune solidamente unito.
Nell’altro campo, c’è di meglio da fare che non sottolineare le differenze, sicuramente reali, che esistono nella situazione dei diversi paesi. La posta in gioco è piuttosto di costruire un punto di vista internazionalista sulla crisi in Europa. E`innanzitutto il solo mezzo di opporsi veramente alla crescita dell’estrema destra proponendo altri bersagli che i soliti capri espiatori. In secondo luogo, è il modo per affermare una reale solidarietà internazionale con i popoli più fragilizzati dalla crisi domandando che vengano mutualizzati i debiti a livello europeo. Bisogna opporre un progetto alternativo al progetto borghese europeo, che porta in tutti i paesi alla regressione sociale. Come non capire che le mobilitazioni, confrontate con la coordinazione borghese a livello europeo, devono appoggiarsi su un altro progetto coordinato? Anche se è vero che le lotte si conducono in un quadro nazionale, esse verrebbero rafforzate da una simile prospettiva, invece di venir indebolite o deviate verso il vicolo cieco del nazionalismo. Che gli studenti londinesi abbiano manifestato gridando “tutti insieme, tutti insieme!” è il simbolo di questa aspirazione vivente.
Per una strategia europea
Il compito è difficile, come il periodo che è stato aperto dalla crisi. Ma la sinistra radicale non deve bloccarsi nella scelta impossibile tra un’avventura rischiosa – l’uscita dall’euro – e un armonizzazione utopica. E`assolutamente possibile lavorare su degli obiettivi intermediari che mettono in questione le istituzioni europee, per esempio:
– gli Stati dell’Unione europea devono poter ottenere prestiti direttamente dalla Banca centrale europea a tassi d’interesse molto bassi e le banche private devono essere obbligate a prendere a carico una certa porzione del debito pubblico;
– bisogna mettere in atto un meccanismo di insolvenza, che permetta di annullare il loro debito pubblico in misura proporzionale ai regali fiscali e di salvataggio delle banche;
– il risanamento delle finanze deve passare attraverso una riforma della fiscalità, mirante a tassare in modo armonizzato a livello europeo i movimenti di capitale e le transazioni finanziarie, i dividendi e altre remunerazioni del capitale, delle grandi fortune e degli alti salari.
Occorre rendersi conto che tali obiettivi non sono né più lontani, né più vicini dell’illusione che un'”uscita dall’euro” sarebbe favorevole ai lavoratori. Certo, sarebbe effettivamente assurdo aspettarsi una rottura simultanea e coordinata in tutti i paesi europei. La sola ipotesi strategica che si possa allora concepire deve prendere come punto di partenza un’esperienza di trasformazione sociale che inizia in un solo paese. Il governo del paese in questione prende dunque delle misure, per esempio l’instaurazione di una tassa sul capitale. Ma se agisce con lucidità, deve allo stesso tempo anticipare le misure di ritorsione di cui diventerà immediatamente il bersaglio: dunque instaura un controllo dei capitali. Prendendo questa misura di protezione della riforma fiscale in corso, entra apertamente in conflitto con le regole del gioco europeo. Cionondimeno non ha interesse a prendere l’iniziativa di un’uscita unilaterale dall’euro, il che sarebbe di nuovo un errore strategico enorme, poiché la nuova moneta verrebbe subito attaccata per mettere a terra l’economia del paese “ribelle”.
Bisogna dunque abbandonare l’idea che esistano delle scorciatoie “tecniche”, assumere il conflitto inevitabile e costruire un rapporto di forze, e la dimensione europea ne fa parte. Esiste per questo un primo punto di appoggio, che è la capacità di nuocere agli interessi capitalistici: il paese innovatore può ristrutturare il suo debito, nazionalizzare i capitali stranieri, ecc., o minacciare di farlo. E` quel che non han pensato a fare, in nessun momento, i governi “di sinistra” di Papandreu in Grecia o di Zapatero in Spagna.
Il principale punto di appoggio risulta dal carattere cooperativo delle misure prese. E` una differenza enorme rispetto al protezionismo classico, che in fondo cerca sempre di trarsi d’impaccio contro gli altri rosicchiando loro delle parti di mercato. Tutte le misure progressiste, invece, sono tanto più efficaci più vengono generalizzate a un gran numero di paesi. Bisognerebbe dunque parlare qui di una strategia di estensione che riposa sul seguente discorso: noi affermiamo la nostra volontà di tassare il capitale e prendiamo le misure di protezione adeguate. Ma questo in attesa che questo provvedimento, come noi proponiamo, venga esteso all’insieme dell’Europa.
Conclusione: piuttosto che contrapporle, bisogna riflettere all’articolazione tra rottura con l’Europa neoliberale e progetto di rifondazione europea.
* Articolo pubblicato sulla rivista Socialist Resistance, dicembre 2010. Traduzione a cura della redazione di Solidarietà.
1. vedi Micael Hudson, “US Quantitative Easing Fracturing the Global Economy”.
2. vedi il notevole documento pubblicato dal Bloco de Esquerda (Blocco di sinistra) portoghese: “On the crisis and how overcome it”, 23 maggio 2010.