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Proteste di piazza, scontri. L’Egitto come la Tunisia?
 
In Tunisia il movimento ha preso forma in modo spontaneo, la protesta si è estesa a macchia d’olio dopo il suicidio del giovane ambulante di Sidi Bouzid. In Egitto, la situazione è diversa. Le manifestazioni sono state organizzate da un’opposizione politica che sta conducendo una campagna forte contro il regime e quella che viene chiamata «la trasmissione ereditaria del potere»: ovvero l’intenzione, di Mubarak di passare al figlio la direzione del paese. Le elezioni del novembre-dicembre scorso hanno spinto la farsa un po’ più oltre, mostrando un contrasto stridente rispetto a quelle – comunque taroccate – del 2005. Allora, Bush faceva pressione sugli alleati arabi affinché adottassero una parvenza di democrazia. Il regime egiziano permise alla principale forza di opposizione, i Fratelli musulmani, di fare eleggere 88 deputati. Elezioni davvero libere avrebbero consentito agli islamisti di mostrare una forza elettorale ben più grande, magari vincerle come in Algeria nei primi anni ’90. Ma quell’apertura controllata mostrò comunque agli Usa, come voleva Mubarak, che l’alternativa era tra lui o i Fratelli musulmani. Washington si convinse che stava giocando col fuoco e che era meglio tornasse alla solita politica: meglio regimi autoritari alleati a situazioni incontrollabili. Mubarak ha organizzato le elezioni come prima del 2005: completamente truccate. I Fratelli musulmani sono passati da 88 deputati a uno solo. Inoltre, a partire da 2006-2009 l’Egitto ha conosciuto la più grande ondata di scioperi operai della sua recente storia. Una considerevole ondata iniziata nel 2006 che non è completamente morta e ha lasciato una forte tensione sociale nel paese. Mubarak ha fatto l’errore di credere che chiudendo la valvola di sicurezza potesse controllare la marmitta, e ha fatto esplodere le cose. A questo si aggiunge l’esempio tunisino che ha spinto la popolazione ad agire. Il regime è incerto: ha paura che finisca come in Tunisia e non vuole perdere il controllo.
 
Com’è composta l’opposizione?
 
In primo luogo dai Fratelli musulmani. Ci sono poi forze d’opposizione liberali che hanno come figura centrale l’ex direttore dell’Agenzia internazionale per l’energia Mohammed El Baradey. Mubarak non gli ha permesso di lanciarsi nella competizione elettorale perché questo avrebbe voluto dire modificare le regole elettorali che ora consentono al regime di controllare completamente chi può presentarsi alla presidenza. Fra i suoi sostenitori, El Baradey ha anche molti nazionalisti di sinistra che vedono in lui l’alternativa non religiosa più credibile. Alle elezioni presidenziali avrebbe buone possibilità, perché è molto noto.C’è anche un’estrema sinistra, che va dai comunisti a un’ala più radicale, ai resti del nasserismo, ma ha poco peso. C’è poi una nuova sinistra che è comparsa questi ultimi anni in rapporto alle lotte in corso ma che resta a livello embrionale. Per la prima volta nella storia post nasseriana si è anche avuta l’apparizione di sindacati indipendenti. I movimenti sociali, però, non hanno ancora trovato un’espressione politica forte. Se si creasse un punto di congiunzione fra la protesta sociale e una vera opposizione politica, si potrebbe determinare un cambiamento alla tunisina, ma per il momento le cose non sembrano a questo punto.
 
Chi sostiene Mubarak?
 
Fin dal colpo di stato del 1952, è l’esercito il vero centro del potere in Egitto, anche Mubarak viene dall’esercito. Non così il figlio, che anche per questo non è credibile. Per ora l’esercito si mantiene prudente, ma se la protesta popolare dovesse aumentare, potrebbe abbandonare Mubarak. O comunque indurlo a lasciar perdere «la trasmissione ereditaria». Dall’Egitto allo Yemen, dalla Tunisia alla Giordania e all’Algeria sale dal basso un’onda di protesta che riapre comunque una speranza.
 
* Gilbert Achcar è professore alla School of Oriental and African Studies presso l’Università di Londra. Recentemente ha partecipato alla ultima edizione dell’Altra Davos. Questa intervista è apparsa sul quotidiano il manifesto del 26 gennaio 2011.

A colloquio con Gilbert Achcar

 

Proteste di piazza, scontri. L’Egitto come la Tunisia?
In Tunisia il movimento ha preso forma in modo spontaneo, la protesta si è estesa a macchia d’olio dopo il suicidio del giovane ambulante di Sidi Bouzid. In Egitto, la situazione è diversa.

 Le manifestazioni sono state organizzate da un’opposizione politica che sta conducendo una campagna forte contro il regime e quella che viene chiamata «la trasmissione ereditaria del potere»: ovvero l’intenzione, di Mubarak di passare al figlio la direzione del paese. Le elezioni del novembre-dicembre scorso hanno spinto la farsa un po’ più oltre, mostrando un contrasto stridente rispetto a quelle – comunque taroccate – del 2005. Allora, Bush faceva pressione sugli alleati arabi affinché adottassero una parvenza di democrazia. Il regime egiziano permise alla principale forza di opposizione, i Fratelli musulmani, di fare eleggere 88 deputati. Elezioni davvero libere avrebbero consentito agli islamisti di mostrare una forza elettorale ben più grande, magari vincerle come in Algeria nei primi anni ’90. Ma quell’apertura controllata mostrò comunque agli Usa, come voleva Mubarak, che l’alternativa era tra lui o i Fratelli musulmani. Washington si convinse che stava giocando col fuoco e che era meglio tornasse alla solita politica: meglio regimi autoritari alleati a situazioni incontrollabili. Mubarak ha organizzato le elezioni come prima del 2005: completamente truccate. I Fratelli musulmani sono passati da 88 deputati a uno solo. Inoltre, a partire da 2006-2009 l’Egitto ha conosciuto la più grande ondata di scioperi operai della sua recente storia. Una considerevole ondata iniziata nel 2006 che non è completamente morta e ha lasciato una forte tensione sociale nel paese. Mubarak ha fatto l’errore di credere che chiudendo la valvola di sicurezza potesse controllare la marmitta, e ha fatto esplodere le cose. A questo si aggiunge l’esempio tunisino che ha spinto la popolazione ad agire. Il regime è incerto: ha paura che finisca come in Tunisia e non vuole perdere il controllo.

 

Com’è composta l’opposizione?
In primo luogo dai Fratelli musulmani. Ci sono poi forze d’opposizione liberali che hanno come figura centrale l’ex direttore dell’Agenzia internazionale per l’energia Mohammed El Baradey. Mubarak non gli ha permesso di lanciarsi nella competizione elettorale perché questo avrebbe voluto dire modificare le regole elettorali che ora consentono al regime di controllare completamente chi può presentarsi alla presidenza. Fra i suoi sostenitori, El Baradey ha anche molti nazionalisti di sinistra che vedono in lui l’alternativa non religiosa più credibile. Alle elezioni presidenziali avrebbe buone possibilità, perché è molto noto.C’è anche un’estrema sinistra, che va dai comunisti a un’ala più radicale, ai resti del nasserismo, ma ha poco peso. C’è poi una nuova sinistra che è comparsa questi ultimi anni in rapporto alle lotte in corso ma che resta a livello embrionale. Per la prima volta nella storia post nasseriana si è anche avuta l’apparizione di sindacati indipendenti. I movimenti sociali, però, non hanno ancora trovato un’espressione politica forte. Se si creasse un punto di congiunzione fra la protesta sociale e una vera opposizione politica, si potrebbe determinare un cambiamento alla tunisina, ma per il momento le cose non sembrano a questo punto.

Chi sostiene Mubarak?
Fin dal colpo di stato del 1952, è l’esercito il vero centro del potere in Egitto, anche Mubarak viene dall’esercito. Non così il figlio, che anche per questo non è credibile. Per ora l’esercito si mantiene prudente, ma se la protesta popolare dovesse aumentare, potrebbe abbandonare Mubarak. O comunque indurlo a lasciar perdere «la trasmissione ereditaria». Dall’Egitto allo Yemen, dalla Tunisia alla Giordania e all’Algeria sale dal basso un’onda di protesta che riapre comunque una speranza.


* Gilbert Achcar è professore alla School of Oriental and African Studies presso l’Università di Londra. Recentemente ha partecipato alla ultima edizione dell’Altra Davos. Questa intervista è apparsa sul quotidiano il manifesto del 26 gennaio 2011.