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L’offensiva padronale, sostenuta apertamente dal governo e in primis dal Dipartimento dell’economia e delle finanze, tesa a promuovere il prolungamento degli orari di apertura dei negozi non si placa.

Proprio recentemente il governo ha infatti licenziato il messaggio sulla nuova legge sugli orari di apertura dei negozi che prevede di spostare l’orario di chiusura settimanale alle 19.00 e quello del sabato alle 18.00 (mantenendo il giovedì fino alle 21), formalizza una serie di deroghe per le domeniche e i giorni festivi e liberalizza, quasi completamente, gli orari dei piccoli negozi e di altre categorie speciali, in particolare quelli legati alle stazioni di benzina.

 

Già abbiamo detto come questa proposta sia inaccettabile perché di fatto rappresenta un peggioramento generale delle condizioni di lavoro, in un settore già di per sé scarsamente protetto e nel quale vigono salari estremamente bassi. Ci preme ora mettere l’accento su alcune altre questioni. Infatti accanto alla battaglia legislativa si scatena, come tradizione vuole, quella ideologica. Domenica scorsa ci ha pensato il Caffè. In un lungo articolo ha cercato di dimostrare, cifre alla mano, che per le donne svizzere fare la spesa o andare dal parrucchiere sarebbe una vera e propria “missione impossibile”. E questo perché, secondo le statistiche ufficiali, in Svizzera le donne, anche se lavorano fuori casa, si accollano la stragrande maggioranza del lavoro domestico e hanno quindi una giornata lavorativa troppo lunga che non permette loro di poter godere dello shopping o di una seduta dall’estetista.

Ora, tre domande sorgono spontanee: siamo proprio sicuri che le donne, nel loro tempo libero, desiderano unicamente fare shopping e andare dal parrucchiere? E le parrucchiere e le commesse dei grandi magazzini quando troverebbero il tempo per dedicarsi a questi presunti hobby femminili? E, infine, per liberare il tempo delle donne non sarebbe forse meglio ridurre il tempo di lavoro di tutti e tutte e permettere, attraverso la creazione di servizi pubblici di cura dei bambini, di redistribuire meglio il lavoro domestico tra i due sessi?

Un secondo aspetto del dibattito riguarda la concorrenza con la vicina Italia. Un fronte diventato particolarmente caldo  in occasione della chiusura dei negozi ticinesi il 19 marzo (giorno di San Giuseppe). La tesi è semplice quanto sbagliata: a causa delle chiusure troppo restrittive dei negozi nel nostro cantone i ticinesi sarebbero “costretti” a recarsi a fare la spesa in Italia. Una risposta sicuramente esaustiva a questa questione l’ha data, forse involontariamente, il settimanale della RSI “Patti chiari”. Durante l’ultima emissione ha infatti dimostrato che la stessa spessa fatta in Italia o in Svizzera ha due costi nettamente diversi, indubbiamente favorevoli all’Italia. Tra il meno caro supermercato In Italia e il meno caro in Svizzera, la differenza rimane del 48%. Come dire che in Italia si può fare due volte la spesa con gli stessi soldi.

Ed è sostanzialmente per questo motivo che i ticinesi si recano in Italia a fare la spesa, soprattutto in un contesto di continua erosione dei redditi e dei salari e di continuo aumento complessivo del costo della vita. Questo spiega anche perché i grandi colossi della distribuzione tedesca, come Aldi e Lidl, pur avendo gli stessi orari di apertura di Migros e Coop, vanno per la maggiore e continuano a proliferare.

L’apertura prolungata dei negozi non rallenterà quindi la concorrenza con l’Italia, non permetterà di far rinascere il commercio ticinese e, soprattutto, non migliorerà la vita delle donne.

 

* candidata MPS al Gran Consiglio e al Consiglio di Stato