È probabile che nel corso delle prossime settimane il colonnello Muammar Gheddafi perderà il suo potere. Le forze alleate contro di lui sono troppo potenti. Il suo sostegno politico e militare troppo debole. È assai poco probabile che gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la Francia accettino che la situazione sfoci in un compromesso che permetterebbe a Gheddafi di conservare Tripoli ed una parte dei territori ad ovest della Libia e ai ribelli quelli ad est.
Anche prima dei raid aerei, Gheddafi non è riuscito a mobilitare più di 1’500 uomini per marciare su Bengasi, e molti non erano soldati addestrati. Se hanno potuto avanzare è solo perché i ribelli dell’est del paese non sono riusciti a far partecipare ai combattimenti i 6’000 soldati la cui diserzione è stata all’origine della prima rivolta.
Durante i primi giorni dell’intervento straniero, le operazioni si sono svolte correttamente, tenendo conto delle esperienze che gli Stati Uniti ed i loro alleati hanno accumulato in Afghanistan nel 2001 e in Iraq nel 2003. Attacchi aerei hanno distrutto a sud di Bengasi una colonna di carri armati e di fanteria. I sopravvissuti sono fuggiti. La ritirata assomigliava alla rapida dissoluzione dei talebani e delle armate irachene.
In Iraq ed in Afghanistan la maggior parte della popolazione era felice di liberarsi dei suoi dirigenti, così come la maggior parte dei Libici sarebbero contenti di veder andarsene Gheddafi. È quindi possibile che il suo regime cada più in fretta di quanto non si pensi. In questi ultimi giorni abbiamo sentito gli esperti insistere sul fatto che Gheddafi è forse pazzo, ma non è stupido, e non bisogna sottovalutare il carattere da opera buffa del suo regime.
È dopo la caduta di Gheddafi che si aprirà un periodo che può produrre disastri simili a quelli visti in Afghanistan e in Iraq. In questi due casi, il buon esito della guerra ha permesso agli Stati Uniti di diventare la potenza predominante nel paese. In Iraq, ciò ha portato ad un’occupazione imperialista classica. Come dichiarava un leader iracheno “L’occupazione è stata la madre di tutti gli errori”. Anche se Hamid Karzaï figurava alla testa del governo afgano, erano sempre gli Stati Uniti che prendevano le decisioni importanti.
In Libia si porrà lo stesso problema. I ribelli hanno dimostrato di essere deboli politicamente e militarmente e non rappresentano un partner credibile. Altrimenti non avrebbero avuto bisogno di un intervento straniero all’ultimo minuto per salvarsi.
I leader locali che emergono in queste circostanze sono generalmente coloro che parlano meglio l’inglese ed hanno i migliori contatti con gli Stati Uniti e i loro alleati. A Baghdad e a Kabul i primi ad emergere sono stati i più ossequiosi e coloro che erano pronti a presentarsi al Congresso (degli Stati Uniti) per esprimere la loro gratitudine servile per le azioni statunitensi.
Vi è poi una complicazione ulteriore. La Libia, così come l’Iraq è uno stato petrolifero, e la ricchezza petrolifera tende a suscitare i peggiori istinti di quasi tutto il mondo. Si giunge all’autocrazia perché chiunque controlli le ricchezze che provengono dal petrolio può pagarsi potenti forze di sicurezza ed ignorare l’opinione pubblica. Gli stati che dipendono interamente dal petrolio sono raramente democratici.
I Libici che aspirano a diventare dirigenti e che giocheranno le loro carte migliori durante i prossimi mesi potranno mettersi nella condizione di guadagnare molti soldi. Un funzionario iracheno di Baghdad, prima della caduta di Saddam Hussein nel 2003, ha commentato cinicamente: “Gli Iracheni esiliati sono solo la copia di coloro che ci governano”, ma i dirigenti attuali sono quasi sazi “perché ci derubano da 30 anni”, mentre i nuovi dirigenti “avranno una fame da lupi”.
Esistono già molti indizi del fatto che David Cameron, Hillary Clinton e Nicolas Sarkozy cominciano a credere troppo alla loro propaganda, soprattutto per quanto concerne il sostegno della Lega Araba agli attacchi aerei. Quegli stessi diplomatici, che tendevano a trattare con disprezzo le opinioni della Lega Araba, improvvisamente pensano che il fatto che essa chieda una zona di esclusione aerea sia la prova che il mondo arabo sia a favore di un intervento.
Tutto questo potrebbe cambiare rapidamente. I dirigenti arabi sono soprattutto persone che il “risveglio arabo” tende a mettere da parte dal punto di vista politico. Si rimane in attesa che gli Emirati arabi uniti e il Quatar, membri del Consiglio di cooperazione del Golfo che riunisce le monarchie del Golfo, partecipino militarmente all’intervento contro il governo libico. Ebbene, è questo stesso Consiglio che ha appena inviato truppe nel Bahrein per aiutare il governo a porre fine alle proteste a favore della democrazia della maggioranza sciita.
L’atrocità più vera perpetrata nel mondo arabo nel corso della settimana passata non è avvenuta in Libia ma nello Yemen, dove, venerdì scorso, tiratori scelti filogovernativi hanno mitragliato una manifestazione non armata ed ucciso 52 persone.
Per esercitare un’autorità reale è probabile che Gheddafi venga rimpiazzato non da Libici ma da potenze straniere che partecipano al suo rovesciamento. Se ci si basa su quanto è successo in Afghanistan e in Iraq, non ci vorrà molto che in Medio Oriente le loro azioni siano viste come ipocrite ed interessate, scatenando così una nuova resistenza.
* articolo pubblicato lo scorso 22 marzo. Patrick Cockburn è un giornalista indipendente irlandese che scrive per numerose testate internazionali.