Alla fine se ne sono accorti o, almeno, hanno fatto finta di farlo. Parliamo del dibattito che i partiti politici hanno tenuto la scorsa settimana, al Parlamento federale, sui rapporti tra Unione Europea (UE) e Svizzera. Naturalmente non ci si aspettava nulla di nuovo: nessuno di questi partiti avrebbe mai, alla vigilia delle elezioni nazionali, ammesso di essersi sbagliato e, tantomeno, proclamato un cambiamento delle proprie posizioni.
Così tutti, ma proprio tutti, hanno ripetuto gli stessi ragionamenti che ci hanno propinato nel 2005, al momento della prima votazione sui bilaterali e poi ancora, a crisi economica e finanziaria già in atto, nel febbraio 2009.
L’UDC ci ha raccontato, ancora un volta, che l’unica soluzione è la “preferenza nazionale”, il ritorno ad una Svizzera “indipendente” e “sovrana” all’interno dei propri confini che possa così sfruttare, nei confronti di tutti gli altri paesi, le proprie specificità ed i propri vantaggi concorrenziali.
Una posizione non dissimile da quella di PLR e PPD i quali insistono su tutto quanto di positivo, per i salariati di questo paese, rappresentino gli accordi bilaterali: sviluppo delle esportazioni, dei commerci, degli affari per l’economia svizzera: e, ” di conseguenza”, benessere per tutti. Certo c’è qualche piccolo problema da risolvere, ma la via è quella giusta.
Non del tutto diversa la posizione dei social-liberali che confermano la loro prospettiva “europea” con la adesione, a termine (non osano più rivendicarla come una necessità urgente), all’UE; gli accordi bilaterali sono stati positivi, le misure di accompagnamento hanno funzionato anche se si rivelerebbero insufficienti in alcuni cantoni e quindi necessiterebbero di un aggiustamento.
Un dibattito, delle posizioni, che poco o nulla hanno a che vedere con la realtà quotidiana con la quale si trovano confrontati i salariati di questo paese. Che si sono accorti, abbastanza in fretta, che dietro agli accordi bilaterali e al cosiddetto processo di libera circolazione, altro non vi era che una grande processo di liberalizzazione del mercato del lavoro. Obiettivo padronale: avvicinare le condizioni salariali vigenti in Svizzera a quelle dei paesi concorrenti, riuscendo quindi a guadagnare posizioni anche su questo terreno.
Il risultato è una tendenza alla diminuzione dei salari in tutte le regioni, e non solo in quelle frontaliere; la sostituzione di personale indigeno con manodopera estera, costretta ad accettare – in mancanza di norme legali vincolanti e di qualifiche professionali riconosciute sul territorio svizzero – condizioni salariali più basse di quelle versate negli ultimi anni.
Da qui l’aumento delle concorrenza tra salariati, la nascita di sentimenti di divisione e xenofobi striscianti: un vero e proprio invito a nozze per l’UDC e tutti coloro (come una parte del PLR) che incoraggiano e sposano questi atteggiamenti, elettoralmente paganti.
I social-liberali e le direzioni sindacali restano con il cerino in mano: hanno voluto a tutti i costi, in accordo con il padronato, rassicurare i salariati di questi paese, convincendoli ad accettare gli accordi bilaterali poiché le misure di accompagnamento li avrebbero protetti dal dumping salariale e sociale.
Non è stato così e non sarà così. L’onestà politica vorrebbe che costoro riconoscessero di essersi sbagliati ed annunciassero un cambiamento di orientamento politico. Ma l’onestà politica è ormai diventata merce rara.