Dietro alla discussione sui ristorni fiscali ai lavoratori frontalieri in realtà vi è il tentativo di far dimenticare quale sia il problema principale legato alla libera circolazione ed al ricorso massiccio alla manodopera frontaliera: il dumping salariale promosso dal padronato, cioè il tentativo di usare la grande offerta di manodopera per abbassare i salari.
I frontalieri diventano così in qualche modo i responsabili di tutto: di “rubare” il lavoro e di “rubare” le imposte che dovrebbero rimanere in Ticino, poiché di “proprietà” del Cantone. Una situazione ideale per far montare xenofobia e divisione tra i lavoratori. Un affare dal punto di vista sociale per i padroni e un premio elettorale per chi, come la Lega, su questi temi ci campa.
Le imposte dei frontalieri: a chi appartengono?
Il tema del ristorno delle imposte dei frontalieri è oggetto di una discussione assai strana. In particolare poiché essa ruota attorno all’idea, assurda da più punti di vista, che le imposte che vengono trattenute ai lavoratori frontalieri siano di “proprietà” del canton Ticino.
In realtà, come qualsiasi altra imposizione, esse provengono dal salario dei lavoratori: si tratta quindi di ricchezza prodotta dai lavoratori (in questo caso dai lavoratori frontalieri) attraverso il loro lavoro e prelevata, in questo caso alla fonte, da parte dello Stato (in questo caso il Canton Ticino).
Diciamo quindi che queste imposte appartengono ai lavoratori frontalieri. E questi dovrebbero avere il diritto, come ognuno di noi, di dire che cosa vogliono che, attraverso queste imposte, venga realizzato. D’altronde questo diritto ogni cittadino e ogni cittadina che paga le imposte in Ticino, almeno in principio, ce l’ha o, forse meglio, dovrebbe poterlo avere. In fondo la democrazia liberale teorizza proprio questo: che attraverso l’esercizio della rappresentanza politica si decida, tra le altre cose, anche l’allocazione delle risorse pubbliche accumulate attraverso il prelevamento delle imposte.
In realtà a non poter dire nulla sono proprio coloro che “guadagnano” e “pagano” le imposte oggetto del contendere, i frontalieri, ostaggio di un dibattito tra élite politiche che li usano per interessi elettorali e di potere.
Proprio partendo da questa necessità e da questo diritto, cioè di poter decidere sulla destinazione dei frutti del proprio lavoro, si dovrebbe aprire una discussione nella quale i frontalieri, attraverso le loro organizzazioni o direttamente, possano esprimere il proprio punto di vista.
Quante imposte e per fare cosa?
Come noto, l’accordo tra Svizzera e Italia del 1974 (poi modificato nel 1985) prevede che il 38.8% del totale delle imposte pagate dai frontalieri in Svizzera venga ristornato ogni anno ai Comuni di frontiera (nel raggio di 20 Km) nei quali i frontalieri sono domiciliati. Di conseguenza poco meno del 62% di queste imposte resta al Ticino. La somma versata ai comuni italiani supera di poco i 50 milioni di franchi annui, al Ticino restano circa 75 milioni.
Una somma, quest’ultima, non certo indifferente poiché, val la pena ricordarlo, questa somma (versata dai circa 50’000 frontalieri che lavorano in Ticino) corrisponde al 15% del gettito complessivo delle persone fisiche.
Ora, riaprire la discussione sull’attuale ripartizione delle imposte pagate dai frontalieri è possibile e, forse, anche necessario. Ma non nella prospettiva indicata da coloro che in questi mesi stanno cavalcando la questione a fini sostanzialmente elettorali.
Infatti la questione che va discussa potrebbe essere posta in un senso diametralmente opposto a quello che ci propinano i fautori della revisione: l’attuale 62% di imposte trattenuto dal Ticino è conforme ai servizi ed alle prestazioni che il Cantone offre ai lavoratori frontalieri e che questi sono in misura di utilizzare?
È noto a tutti, e su questo non pensiamo che vi siano possibili discussioni, che le imposte prelevate sul reddito di chi lavora debbano servire a finanziare le attività dello Stato. Strade, ospedali, , amministrazione pubblica, scuole, sicurezza, socialità: sono gli aspetti fondamentali finanziati attraverso i proventi fiscali.
Ebbene, prendiamo come esempio il classico frontaliere, residente nella provincia di Varese, che ogni mattina entra dal valico del Gaggiolo per andare a lavorare in una delle numerose fabbriche della zona industriale di Stabio. Di quali servizi offerti dallo Stato può beneficiare?
Non certo delle scuole (i figli studiano in Italia), non certo dell’amministrazione pubblica (un certificato, un documento di identità, ecc. deve recuperarli in Italia), nemmeno del servizio sanitario cantonale (ospedali, ecc.), e neanche della sicurezza sociale (viene finanziata attraverso i prelevamenti – come per AVS, INSAI, ecc), né tantomeno dei sussidi ad essa legati (pensiamo a quelli relativi ai premi dell’assicurazione malattia); e, infine, nemmeno fa un grande “consumo” di strade e infrastrutture pubbliche visto, nel caso in questione, che utilizza poche centinaia di metri per recarsi al lavoro.
Per l’utilizzazione di tutto questo (cioè poco o nulla) lascia al Ticino il 62% delle imposte prelevate sul proprio salario.
Siamo veramente sicuri che si tratti di un prelevamento “equo”?