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Abbiamo già scritto come la questione del ristorno fiscale dei frontalieri che lavorano in Ticino assume un senso solo se inserito nell’ambito della campagna dai contorni xenofobi che tutta la destra (dai liberali alla Lega passando per il PPD) stanno ormai conducendo da tempo attorno al frontalierato.

 

Obiettivo è spostare il centro dell’attenzione dai problemi essenziali che l’utilizzazione padronale della manodopera frontaliera, favorita dagli accordi bilaterali e dalla liberalizzazione del mercato del lavoro, sta creando in Ticino. In particolare la questione del dumping salariale e sociale che si manifesta attraverso una tendenza generale alla diminuzione dei salari e ad un utilizzazione delle manodopera frontaliera come elemento di riorganizzazione  e di divisione  dei salariati.

Rispondere a questi problemi significherebbe riconoscere la dinamica messa in atto dagli accordi bilaterali e rimettere in discussione il diritto assoluto del padronato in materia salariale e di condizioni di lavoro: cosa che liberali, leghisti, pipidini e compagnia  bella si guardano bene dal fare, appoggiati da tutte le associazioni padronali.

In questa prospettiva si moltiplicano gli atti parlamentari, gli interrogativi, i sospetti sul numero crescente di frontalieri attivi in vari settori, in    particolare in quelli che erano protetti, fino a    pochi anni fa, dalla penetrazione di questi lavoratori. Dimenticando di ricordare per quale ragione questi settori non sono più protetti…

Rientra in questa stessa prospettiva di alimentazione dei sentimenti xenofobi  la discussione sul tema del ristorno delle imposte dei frontalieri, perlomeno nei termini e nei tempi nei quali è stata posta; l’idea che viene alimentata è che i lavoratori frontalieri non solo “rubano” posti di lavoro e accettano condizioni di salario più basse, ma “rubano” anche una parte delle imposte che vengono prelevate e ristornate ai loro comuni di residenza. In altre parole lavorano e, quasi quasi, non pagano nemmeno le imposte sembrano voler suggerire i fautori della revisione dell’accordo.

 

Berna ci ascolta…

 

L’accoglimento di una mozione da parte della Commissione dell’economia e dei tributi del Consiglio degli Stati all’attenzione del Consiglio federale ha suscitato la soddisfazione del governo cantonale. Con questa mozione, fa sapere il governo cantonale,”si chiede che nell’ambito della rinegoziazione della Convenzione contro la doppia imposizione fra Italia e Svizzera, di cui l’Accordo sull’imposizione dei frontalieri è parte integrante, si inserisca il principio di reciprocità, attualmente assente, si tenga conto dei cosiddetti “falsi frontalieri” e si ridefinisca l’ammontare della quota all’imposta alla fonte riversata ai Comuni italiani della fascia di frontiera”.

Abbiamo già scritto, e lo ripetiamo, che di per sé non vi è nulla di censurabile nella richiesta di rinegoziare l’accordo sulla fiscalità dei frontalieri, in particolare per il fatto che si tratta di un vecchio accordo e, come tutti gli accordi, sicuramente necessita di essere adeguato alla evoluzione dei tempi.

 

Richieste discutibili

 

Delle tre richieste alle quali fa riferimento il governo solo la prima, a onor del vero, appare legittima, cioè quella relativa all’introduzione della principio di reciprocità. È vero infatti che un numero sempre più importante di persone residenti in Ticino lavorano quotidianamente al di là della frontiera: appare quindi giusto che il loro trattamento fiscale sia uguale a quello riservato ai residenti italiani della zona di frontaliera che ogni giorno vengono a lavorare in Ticino.

Appaiono invece discutibili (e frutto del clima al quale abbiamo prima fatto riferimento) le due altre richieste, cioè quella relativa ai cosiddetti “falsi frontalieri” e quella, di fatto la principale, di ridefinire l’ammontare – evidentemente a favore del Ticino – dell’attuali percentuali (circa 38,8% ai comuni di domicilio dei frontalieri, il resto al Cantone).

Sulla richiesta dei cosiddetti “falsi frontalieri” si tratta di un problema di fatto inesistente. Non perché non esistano lavoratori che hanno uno statuto di frontaliere, ma che di fatto hanno ormai spostato il centro della loro vita in Ticino, dove passano buona parte della settimana,spesso affittando una casa, ecc.

In questi casi si tratta di decidere come considerarlo. Se un lavoratore ha inequivocabilmente il centro dei propri interessi in Ticino, dove magari soggiorna in modo quasi continuativo, deve essere tassato non più alla fonte, ma come qualsiasi altro cittadino che vive e lavora in Ticino. In questo caso il problema del ristorno delle imposte pagate non si pone più. Vale la pena ricordare che questa fattispecie è nota alle autorità fiscali dei cantoni svizzeri; capita spesso che qualcuno rimanga formalmente domiciliato nel proprio cantone di provenienza pur avendo il centro principale della propria vita e delle proprie attività in un altro. Se quest’ultima fattispecie è appurata l’autorità fiscale del cantone di attività ha il diritto di procedere alla tassazione.

E veniamo alla questione dell’ammontare. Qui non possiamo che ripeterci. Scrivevamo sull’ultimo numero di Solidarietà: “Come noto, l’accordo tra Svizzera e Italia del 1974 (poi modificato nel 1985) prevede che il 38.8% del totale delle imposte pagate dai frontalieri in Svizzera venga ristornato ogni anno ai Comuni di frontiera (nel raggio di 20 Km) nei quali i frontalieri sono domiciliati. Di conseguenza poco meno del 62% di queste imposte resta al Ticino. La somma versata ai comuni italiani supera di poco i 50 milioni di franchi annui, al Ticino restano circa 75 milioni…È noto a tutti, e su questo non pensiamo che vi siano possibili discussioni, che le imposte prelevate sul reddito di chi lavora debbano servire a finanziare le attività dello Stato. Strade, ospedali, , amministrazione pubblica, scuole, sicurezza, socialità: sono gli aspetti fondamentali finanziati attraverso i proventi fiscali.

Ebbene, prendiamo come  esempio il classico frontaliere, residente nella provincia di Varese, che ogni mattina entra dal  valico del Gaggiolo per andare a lavorare in una delle numerose fabbriche della zona industriale di Stabio. Di quali servizi offerti dallo Stato può beneficiare?

Non certo delle scuole (i figli studiano in Italia), non certo dell’amministrazione pubblica (un certificato, un documento di identità, ecc. deve recuperarli in Italia), nemmeno del servizio sanitario cantonale (ospedali, ecc.),  e neanche della sicurezza sociale (viene finanziata attraverso i prelevamenti – come per AVS, INSAI, ecc), né tantomeno dei sussidi ad essa legati (pensiamo a quelli relativi ai premi dell’assicurazione malattia); e, infine, nemmeno fa un grande “consumo” di strade e infrastrutture pubbliche visto, nel caso in questione, che utilizza poche centinaia di metri per recarsi al lavoro.

Per l’utilizzazione di tutto questo (cioè poco o nulla) lascia  al Ticino il 62% delle imposte prelevate sul proprio salario.”

Non ci pare che finora qualcuno abbia portato un solo argomento (e diciamo uno) che dimostri che il Ticino, per le prestazioni che offre ai frontalieri attraverso le attività finanziate dagli introiti fiscali, debba prelevare una quota maggiore dell’attuale 62%. Né ci pare un argomento degno di nota il fatto che altri paesi (come l’Austria) si accontentino di un ristorno inferiore (il 12%).

La verità, come detto, è   che in questo periodo, di fronte alla crisi sociale accelerata da fenomeni come il dumping salariale e in vista delle elezioni nazionali, alla destra liberal-pipidina-leghista fa comodo spandere sentimenti xenofobi che individuano nei lavoratori frontalieri il classico capro espiatorio.