Se le donne vogliono tutto di ferma: con questo slogan nel 1991 è stato organizzato il primo sciopero nazionale delle donne. Una mobilitazione che, all’epoca, aveva coinvolto e visto mobilitarsi, con forme e modalità differenti, migliaia di donne che rivendicavano l’applicazione della parità tra i sessi e il riconoscimento dei loro diritti.
Vent’anni fa la mobilitazione aveva visto nascere gruppi e collettivi di base che avevano saputo dare alla lotta una visibilità importante anche con azioni e iniziative originali. Una mobilitazione che era stata organizzata anche su molti luoghi di lavoro per poi confluire in tarda serata in momenti di aggregazione e di manifestazione più ampi, con feste e manifestazioni di piazza. La mobilitazione era stata organizzata in modo capillare coinvolgendo il maggior numero possibile di donne sia nella pianificazione delle iniziative sia nella stesura delle rivendicazioni.
Per alcuni anni questa iniziativa aveva poi permesso di dare vita a collettivi unitari di donne che hanno saputo rilanciare nel tempo alcune lotte e rivendicazioni importanti, come quella contro l’innalzamento dell’età di pensionamento per le donne o quella per il congedo maternità.
Il movimento ha poi conosciuto un’importante battuta d’arresto, complice anche il ripiegamento delle organizzazioni sindacali e politiche della sinistra concentrate prevalentemente a permettere alle donne di raggiungere alcuni posti di responsabilità nelle istituzioni politiche. In particolare l’elezione in Consiglio federale di Ruth Dreifuss ha aperto la strada al ripiegamento dei movimenti delle donne su questioni di tipo puramente istituzionale.
A vent’anni di distanza dal primo sciopero nazionale delle donne, alcune sezioni e organizzazioni sindacali hanno proposto di organizzare nuovamente una mobilitazione per i diritti delle donne. In effetti in questi ultimi vent’anni le donne sono riuscite ad ottenere, sicuramente grazie alle mobilitazioni e non grazie alle loro “rappresentanti” nelle istituzioni politiche, alcuni diritti (congedo maternità, diritto all’aborto, ecc.),; ma il cammino verso la parità sembra ancora lungo. I salari delle donne sono mediamente del 20% inferiori a quelli degli uomini, le donne sono più spesso assunte con contratti precari e a tempo determinato, in settori dove le condizioni di lavoro sono peggiori, fanno fatica ad accedere a posti di responsabilità e devono ancora assumere la stragrande maggioranza del lavoro domestico e di cura.
Inoltre alcuni diritti che sembravano acquisiti sono aggi fortemente rimessi in discussione: si pensi alla questione dell’età di pensionamento e al diritto all’aborto.
L’idea quindi di rilanciare la mobilitazione delle donne in occasione del 20° anniversario del primo sciopero nazionale era sicuramente positiva e da sostenere. Evidentemente è solo attraverso la mobilitazione e l’azione delle donne che le cose possono essere cambiate.
La dinamica che ha avuto però l’organizzazione di questa mobilitazione, o meglio sarebbe dire che non ha avuto, ha permesso di far fallire la mobilitazione. In atti, al di là delle fantasiose dichiarazioni dell’Unione Sindacale Svizzera (USS) che ha parlato di 100’000 donne che vi avrebbero partecipato in tutta la Svizzera, la mobilitazione è stata sicuramente al di sotto anche delle più pessimistiche aspettative. Ad eccezione dei cantoni romandi infatti, dove effettivamente la mobilitazione delle donne è stata sia numericamente che qualitativamente interessante, nel resto della Svizzera ci si è limitati a qualche dimessa manifestazione in piazza che ha raccolto poche donne. Al momento iniziale della giornata- l”ora dei fischi di protesta” – alle 14.06 – erano circa 400 a Berna, 300 a Losanna, 250 a Basilea, 200 a Ginevra, 150 a Friburgo, Winterthur e San Gallo, 100 a
Zurigo, 60 a Sciaffusa, 50 a Lugano, 40 a Lucerna e 30 ad Aarau. Un po’ meglio le manifestazioni serali, in particolare in Svizzera romanda (Berna 1’300, Ginevra 1’000, 300 a Delémont e a Basilea, 200 a Lucerna, a Losanna circa 2000, in Ticino non più di 200).
Dire queste cose significa non certo fare opera di disfattismo, ma dire la verità della realtà del movimento delle donne, ed in particolare dell’apporto sindacale: una condizione necessaria, un bilancio critico di verità senza il quale non è possibile invertire la tendenza.
Quasi in nessun cantone si è riusciti a organizzare momenti di visibilità, di mobilitazione o di discussione sui posti di lavoro. Solo nella regione di Losanna e di Ginevra oltre alla manifestazione del pomeriggio che ha visto la partecipazione di numerose donne si sono organizzate delle attività e dei presidi in alcuni luoghi di lavoro (ospedali, scuole, asili nido, ecc.).
Significativa la “presenza” sindacale sui luoghi di lavoro pubblicizzata (ed unica) in Ticino: le funzionarie di Unia che distribuivano volantini davanti ad una fabbrica di orologi dove vigono salari da fame che…lo stesso sindacato ha approvato.
Le ragioni di quello che onestamente deve essere considerato un insuccesso sono diverse. Indubbiamente il contesto politico e sociale difficile non favorisce in generale la mobilitazione dal basso. A questo bisogna aggiungere la scelta delle organizzazioni sindacali di non utilizzare questa scadenza per cominciare a ricostruire un tessuto di collettivi di donne capaci poi di dare continuità alle rivendicazioni. L’USS ha scelto di organizzare da sola la giornata di “lotta” attribuendole così una dimensione di pura commemorazione. Non è stato fatto nessun tipo di lavoro sindacale di base per cercare di mobilitare, almeno in qualche settore, le lavoratrici. Non si è voluto creare collettivi unitari che magari avrebbero potuto allargare la mobilitazione e renderla più capillare o comunque avrebbero permesso ad altre donne di partecipare all’organizzazione della giornata. In questo modo si è persa sicuramente un’occasione importante.