In un articolo di Pallante e Bertaglio, dal titolo “La decrescita è donna”, leggiamo: “È difficile non vedere la superiore sensibilità e delicatezza delle caratteristiche femminili, o negare che questo tipo di società, basata sulla competizione in ogni singolo aspetto della vita, sia generata da smanie di stampo tipicamente maschile. Lo conferma anche un concetto chiamato “maschilità di mercato”.
In cosa consiste? Nel fatto che essere virili significa essere forti, avere successo, essere capaci, affidabili, dominanti: tutte caratteristiche di quegli avidi bottegai che, nel corso degli ultimi due secoli, hanno preso il sopravvento (diventando ai giorni nostri importanti politici e uomini d’affari) sia sugli aristocratici dallo stile e dai gusti femminei, sia su quegli artigiani che, soddisfatti del loro operato ma non bisognosi di accumulare ricchezze all’infinito, si accontentavano di fare le cose bene e con cura.”(1)
Questo tipo di società sarebbe “generata da smanie di stampo tipicamente maschile”. Qui c’è la completa inversione di causa ed effetto. E’ la vita reale, con i suoi rapporti economico – sociali a determinare la mentalità dell’uomo, non viceversa, anche se a sua volta l’effetto reagisce sulla causa. Sostenere il contrario vuol dire cadere nell’idealismo.
Il maschilismo, inoltre, non è caratteristico della nostra società soltanto. Il patriarcato ha origini antiche. Il padre – che non necessariamente è il padre in senso naturale – aveva potestà di vita e di morte sui familiari e i servi presso gli ebrei (Abramo sul punto di sacrificare Isacco), gli Achei (Ifigenia sacrificata da Agamennone), i romani. Il capitalismo porta a una liberazione parziale della donna, ma il venir meno di molti vincoli giuridici è sostituito da condizionamenti di fatto, soprattutto economici, che portano a una serie di devianze, dai matrimoni d’interesse alla prostituzione. La completa emancipazione della donna è legata all’emancipazione dei lavoratori, alla fine della società basata sul profitto, la proprietà privata, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
Scrivono: “… essere virili significa essere forti, avere successo, essere capaci, affidabili, dominanti”. In realtà, giovani forti e virili perdono la vita o la salute per incidenti di lavoro o in guerra, mentre il successo arride a usurai, adulatori, ruffiani, truffatori d’alto bordo, speculatori, pennivendoli, portaborse, doppiogiochisti, spie, delatori, escort di lusso e a miriadi di altri parassiti. Nella nostra società vige una selezione alla rovescia, per cui, non il più forte o il più capace, ma l’individuo dalla spina dorsale più duttile, il più servile, il più vile cortigiano fa carriera. Chi è giunto in alto, può permettersi di essere duro con i deboli, anche se resta prono nei confronti dei potenti.
Quanto allo stile e ai gusti “femminei” degli aristocratici, portiamo alcuni esempi: Boemondo di Taranto conquistò Antiochia (1098) alla testa dei crociati, e, al grido di “Chyrieleison – Chyrieleison”, fece massacrare migliaia di musulmani. L’anno dopo, stesse scene con Goffredo da Buglione a Gerusalemme, e massacro della popolazione. Crema e Milano furono rase al suolo dal Barbarossa, aristocratico all’ennesima potenza (Hohenstaufen nel ramo paterno e discendente di Guelfo IV di Baviera da parte di madre). La Crociata contro gli Albigesi, con la devastazione della civilissima Provenza, fu guidata da un altro aristocratico dallo spirito “femmineo”, Simone di Montfort. E i principi rumeni Vlad II, detto Drac (diavolo) e Vlad III, detto Dracula (figlio del diavolo?) o l’impalatore?
Nobilissimi guerrafondai furono gli Asburgo Carlo V e Filippo II, il conte-duca di Olivares, regista della spietata guerra dei trenta anni, Richelieu, nobile e cardinale. Enrico VIII, fu una sorta di Barbablù coronato, che mandava al patibolo le mogli. Luigi XIV insanguinò l’Europa, bombardò Genova e ridusse in macerie Heidelberg, militaristi e aristocratici anche Bismarck e Nicola II il sanguinario, l’ultimo zar.
I piaceri e i gusti “femminei” della nobiltà erano possibili perché esistevano la servitù della gleba, la corvée e tutta una serie di istituti repressivi. I servi passavano gran parte del tempo a lavorare il campo del signore, dovevano pagare decime, interesse, censo, dogana, tassa per l’esenzione (imposta militare), imposta regionale, imposta imperiale. Erano costretti a raccogliere fragole, paglia, mirtilli, lumache, a spaccare la legna per il signore, che aveva anche lo “jus primae noctis”. Costui poteva gettare il contadino nella torre del castello, torturarlo o ucciderlo. Il codice penale di Carlo V, la “Carolina”, prevedeva il taglio delle orecchie, del naso, l’enucleazione degli occhi, lo stroncamento delle dita e delle mani, la decapitazione, il supplizio della ruota, il supplizio del fuoco, il trattamento con tenaglie roventi, lo squartamento.(2)
Quanto agli artigiani, finché la produzione era limitata, doveva essere protetta dalle strutture corporative. Quando si dilatò, alle fiere locali e ai mercati rionali si sostituì il mercato nazionale e poi mondiale, e all’artigianato subentrarono le manifatture e poi le grandi industrie. Era un processo inevitabile, e i mercanti ebbero modo di emergere sull’onda dell’aumento della produzione. Se, per una guerra disastrosa con conseguente crollo di civiltà, rinascesse l’economia artigianale, in un periodo più o meno lungo ridarebbe vita al capitalismo.
“Aggressività, competitività, ansia: tutte caratteristiche della società della crescita a tutti i costi.”, scrivono i nostri autori. Ma forme di competitività e aggressività esistevano anche nelle società precedenti. Il duello permetteva di uccidere un uomo anche per futili motivi. E’ nota la vanità del nobile spagnolo, dai cento cognomi, che si vestiva come un gallo con tanto di speroni, così che la parola “Sosiego”, che vuol dire calma, quiete, tranquillità, si è trasformata nell’italiano “sussiego”, che è sinonimo di alterigia, altezzosità. E l’ansia? Nel medioevo e in buona parte dei secoli successivi, avevano terrore del diavolo, si sottoponevano ad assurde penitenze, bruciavano le donne che credevano in contatto col demonio. I matrimoni erano combinati dai genitori, che potevano anche mandare le figlie in convento. I gusti “femminei” e i piaceri dei nobili erano pagati dalla schiavitù dei contadini e delle donne, mantenuti nella paura e nella superstizione.
Sono cose che abbiamo imparato nelle medie inferiori, ma nel secolo XXI c’è ancora chi s’inventa favole reazionarie e poi ci crede.
Si critica la nostra società, sulla base di una storia ridotta a fiaba apologetica, perché non si vuole prendere atto che l’unico modo di superare questa società è una rivoluzione che abolisca il sistema salariale, il profitto, la rendita e la proprietà privata dei mezzi di produzione. Si cercano le soluzioni nel passato, e per questo la decrescita si caratterizza come un fenomeno letterario che, negli aspetti esteriori, ricorda la letteratura reazionaria di inizio ottocento, nemica del capitalismo, e che idealizzava il medioevo feudale. Allora, il feudalesimo era ancora una realtà in gran parte d’Europa, a cominciare dalla Russia e dalla Prussia, e simili apologie della nobiltà avevano una precisa e pericolosa base sociale. Oggi, invece, si tratta di semplice snobismo, che non deve essere preso sul serio da nessun militante, da nessun lavoratore.
“Una vita di corse, ansie e frustrazioni per tutti coloro che… non hanno ancora avuto modo di tenere a freno l’aggressività del maschio dominante.”, continuano i nostri. Il problema non è l’aggressività naturale, che si sviluppa a caldo, è di breve durata, esiste in qualsiasi tipo di società, da quella dei lupi e dei gorilla fino alla nostra, e non scomparirà neppure col comunismo, ma quella a freddo, implacabile, tipica di tutte le società a base classista. Le sberle tra due ragazzi per una loro coetanea, e persino una rissa tra ubriachi, per quanto possano anche avere esiti gravi, non sono certo comparabili con la persecutoria attenzione dell’usuraio nei confronti del debitore, o del camorrista verso chi è sottoposto al pizzo. Un conto è discutere su alcune innegabili caratteristiche comuni agli umani in epoche storiche e preistoriche, un’altra cosa studiare in modo specifico la condizione umana nella società capitalistica, che non si può spiegare con stereotipi come maschilità e femminilità. L’intellettuale benestante entro certi limiti può scegliere se avere un atteggiamento aggressivo o dare un freno all’aggressività, un imprenditore può scegliere un lavoro meno impegnativo o vivere di rendita, e sarà immediatamente sostituito da un altro, un semplice ricambio di persone. La tematica della decrescita e sullo stile di vita è un passatempo colto per la classe dominante e i suoi esponenti intellettuali. Un salariato, un disoccupato, un’impiegata, invece, che scelta hanno? Per chi già è in penuria, la decrescita è una chiacchiera senza senso.
L’articolo di Pallante e Bertaglio si rivela dunque una “captatio benevolentiae” nei confronti delle donne, che non sono necessariamente tanto ingenue da cascarci. Quanto alla frase: “Che cosa c’è di più bello dell’essere accolti, abbracciati con calore, rassicurati, invece che vivere la propria esistenza come una gara di corsa veloce…”, è un pio desiderio, e ricorda la frase di Giovanni XXIII: “Fate una carezza ai vostri bambini…”.
Il conflitto principale non è tra i sessi, ma tra le classi: “Poiché la base della civiltà è lo sfruttamento di una classe da parte di un’altra, l’intero sviluppo della civiltà si muove in una contraddizione permanente. Ogni progresso della produzione è contemporaneamente un regresso della classe oppressa, cioè della grande maggioranza”.(3) Un esempio? L’introduzione di nuove macchine amplia la produzione, ma crea crescente disoccupazione. Il che non è un motivo per rivalutare il passato, e distruggere le macchine come i luddisti. Tornare alla piccola produzione artigianale sarebbe o impossibile o reazionario. Solo una produzione socializzata permetterà di utilizzare la crescente produttività per la riduzione dell’orario di lavoro, per dare a tutti decenti alloggi e i beni utili per la vita, invece che per accrescere la produzione di armi, l’orgia del cemento, dell’acciaio e dei mille veleni, la devastazione del territorio, la proliferazione di merci inutili o dannose.
* articolo apparso lo scorso 26 luglio 2011 sul sito http://www.webalice.it/mario.gangarossa/sottolebandieredelmarxismo.htm
1) Maurizio Pallante e Andrea Bertaglio , “La decrescita è donna”, www.ilfattoquotidiano.it
Link: http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/07/24/la-decrescita-e-donna-2/147413/ Lcap. I,
2) Friedrich Engels, “La guerra dei contadini in Germania”
3) Friedrich Engels, “L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato”, cap. IX.