In visita al campo degli Indignati di Piazza Catalunya, a Barcellona, Eduardo Galeano ha concesso un’intervista nel corso della quale ha detto in particolare questo: “La vita vale la pena di essere vissuta (…). C’è un altro mondo possibile nel grembo di questo mondo. (…) Non so cosa succederà. E non m’interessa particolarmente sapere cosa succederà. Ciò che m’importa è quel che sta accadendo. Ciò che m’importa è il tempo che è, e questo tempo si apre su altri possibili che saranno, ma non si sa cosa saranno”(1).
Crisi del credito, crisi del tempo, crisi di civiltà.
Queste parole del celebre scrittore latinoamericano incitano a scavare nel significato della piccola parola “Ya”, slogan adottato dal movimento sociale in corso nello Stato spagnolo: “Democracia real ya” (democrazia reale, adesso). Quando ci si dedica a questo esercizio, si arriva alla conclusione che questo “Ya”, di fatto, concentra tutto il potenziale rivoluzionario di questa magnifica mobilitazione: vogliamo il cambiamento adesso, non provate ad addormentarci con le vostre promesse di un avvenire migliore; cominciamo a imporre il cambiamento adesso, attraverso la lotta qui; questa lotta è dura, ma fonte d’intelligenza, di gioia, di dignità qui e ora; apre la porta verso un altro modo possibile adesso per il fatto che sì, esiste già, in negativo, all’opposto del mondo attuale.
“Ogni economia si risolve in ultima analisi in un’economia del tempo” (Marx). L’importanza del “Ya” rinvia nei fatti alla crisi della temporalità capitalista e indica che si tratta di un aspetto fondamentale della profonda crisi di civiltà che corrode questa società dall’interno. Sistema in costante squilibrio, pressato dal tempo, che non può far altro che correre più velocemente ingrandendosi all’infinito, il capitalismo schiaccia costantemente il presente a spese del futuro, rinviando a più tardi problemi e soluzioni. I primi crescono, i secondi diventano sempre più improbabili o inaccettabili? Il capitalismo non se ne cura: continua a correre. Non può semplicemente fare altrimenti, perché ognuno dei capitali che lo compongono deve scegliere: correre o morire.
Correre significa investire, rimpiazzare le lavoratrici e i lavoratori con macchine più produttive. Correre significa vendere ad ogni costo, realizzare il plusvalore senza ritardi, per reinvestirlo. Correre significa creare senza sosta nuovi bisogni perché il sovraconsumo (dei ricchi) e il sovraindebitamento (dei poveri) assorbano la sovrapproduzione delle macchine. Correre significa fabbricare merci che invecchiano velocemente, perché la domanda non sia mai soddisfatta. Correre significa investire a credito, vendere a credito, comprare a credito, vivere a credito, amare a credito, morire a credito…
La cosiddetta crisi finanziaria ha fatto emergere l’assurdità di questa fuga in avanti permanente. Crisi del credito, ovvero del centro nervoso che dovrebbe coordinare le attività dei capitali concorrenti e perequare il tasso di profitto, questa crisi della finanza è in realtà quella del capitalismo mondializzato in quanto modo di produzione dell’esistenza sociale. È la crisi del “domani rasatura gratuita”, del “comprate oggi e pagate domani”, del teorema di Schmidt (“i profitti di oggi sono gli investimenti di domani”), della fede in un Deus ex machina tecnologico che apparirà in tempo per evitare la catastrofe ecologica; … e, infine, la crisi degli struzzi politici corrotti, così servili di fronte al capitale e così arroganti di fronte ai popoli, a cui il portafogli prende il posto del cervello e il neoliberismo quello del pensiero.
Perché questa crisi della temporalità è allo stesso tempo una crisi dello spazio politico, e di conseguenza, della democrazia. Anche nella prospettiva internazionalista degli Stati Uniti socialisti del mondo, l’esercizio della democrazia non può essere concepita che a partire da territori determinati. Ora, in un’economia dominata dalla finanza deregolamentata, non c’è più scelta politica che valga. Un “clic” di mouse è oggi sufficiente a spostare milioni di dollari da un angolo all’altro del pianeta, dunque a imporre la politica neoliberale agli Stati. In queste condizioni, la “democrazia” non è altro che un diversivo e il concetto di governo non ha altro da fare che cedere il posto a quello di “governance”.
No al rilancio distruttore, sì all’alternativa. Adesso!
Il capitalismo non risolve niente, distrugge tutto. A livello planetario, l’Agenzia internazionale dell’energia lo ha appena rilevato: le emissioni di CO2 sono aumentate di 1,6 Gt nel 2010. Questo innalzamento senza precedenti conferma che il tetto di 2°C di aumento della temperatura rispetto al periodo preindustriale non può più essere rispettato. In assenza di misure molto radicali prese adesso, da qui alla fine del secolo la strada è quella di un aumento di almeno 4°C della temperatura della Terra(2), scatenando una serie di catastrofi irreversibili nei termini dei tempi umani…
Dal punto di vista sociale, basta dare un’occhiata alle statistiche della disoccupazione, in particolare la disoccupazione dei giovani, per misurare la vastità della carneficina in atto: più del 40% in Spagna, più del 30% in Grecia e in Irlanda, più del 20% in Francia e Germania… Privati del diritto di rendersi utili alla società, milioni di giovani, diplomati qualificati, sono condannati a sopravvivere con 500 o 600 euro al mese… In mezzo a un oceano di capitali inutilizzati.
Sempre più persone capiscono che rilanciare questo sistema marcio aspettando che domani tutto vada meglio non farebbe che aumentare le distruzioni di ogni tipo. Sul piano ecologico, ciò significherebbe ancora più merci prodotte, dunque energia consumata, dunque gas a effetto serra spedito nell’atmosfera – senza contare l’appropriazione capitalista delle terre, delle foreste, dell’aria, così come le tecnologie da apprendista stregone (OGM, nucleare, biocarburanti, “carbone pulito”…, ci fermiamo qui). Sul piano sociale, il rilancio della produzione non soddisferebbe i bisogni sociali più urgenti, visto che sono quelli meno solvibili. Siccome il capitalismo produce unicamente per il profitto, per il suo rilancio sarebbe necessario accettare i piani d’austerità dell’FMI e dei governi, che mirano semplicemente a distruggere ciò che resta dello “Stato sociale”: aumento dell’età pensionabile, diminuzione dei salari, tagli nel pubblico impiego e nella sicurezza sociale, aumento di flessibilità e precarietà…
Un’alternativa è necessaria. Non domani, adesso. Un’alternativa immediata, fondata sull’uso intelligente di “quel che c’è di sovversivo nel reale”, secondo la formula di Bernard Friot (3). Per elaborarla, per identificarne i punti d’appoggio esistenti, bisogna pensare; per pensare bisogna fermarsi e raccogliersi in un luogo determinato. Riconquistare il tempo e lo spazio per ricostruire legame sociale: è ciò che fanno gli Indignati/e nello Stato spagnolo. I manifesti che adottano al termine di lunghi dibattiti democratici in assemblee popolari, mostrano che il metodo è fecondo. Come quella della piazza Tahrir in Egitto o della Casbah in Tunisia, questa mobilitazione atipica conferma così una grande lezione della storia del movimento operaio: la lotta collettiva permette alla coscienza di fare degli enormi balzi avanti; questa può cambiare completamente il rapporto di forza, come diceva Marx: “quando le idee si impossessano delle masse, diventano delle forze materiali”.
“Provate a cominciare a cambiare il mondo”
Quali idee? Non ne mancano! Tuttavia, nell’abbondanza creativa di richieste formulate dagli Indignati di Madrid, di Barcellona e d’altrove, due rivendicazioni ci sembrano particolarmente importanti: la nazionalizzazione della finanza e dell’energia. Da un lato partono dalla constatazione che esiste già un settore pubblico – è “il sovversivo nel reale”, l’apertura verso un altro possibile. D’altra, se ne sottolineiamo l’importanza, non è per attaccamento dogmatico alle ricette sacre del Programma di transizione, ma per ragioni strategiche, basate su un’analisi precisa: questi due settori sono i principali responsabili della distruzione sociale e ambientale, sono legati tra loro da enormi crediti necessari agli investimenti di lungo termine in capitale fisso (piattaforme petrolifere, raffinerie, centrali elettriche…), dominano l’economia come la politica, e bloccano ogni soluzione eco-socialista… in modo che la loro accoppiata infernale sta portando l’umanità dritta verso il baratro.
Assieme alla riduzione radicale del tempo di lavoro (senza perdita di salario e con lavoro di compensazione) e a riforme democratiche in campo politico, queste due rivendicazioni ci sembra che debbano essere messe al centro di un programma anticapitalista. Gli conferiranno molta forza e credibilità, perché rispondono indiscutibilmente a necessità oggettive vitali, inaggirabili (in particolare la necessità di prendere urgentemente misure draconiane per evitare l’innalzamento del livello degli oceani di un metro o più alla fine del secolo!).
Si sentono già gli scettici e gli stanchi: voi confondete i vostri sogni con la realtà, le persone sono troppo individualiste, i rapporti di forza sono troppo degradati, il condizionamento delle burocrazie sindacali è forte, la coscienza di classe è in caduta libera, il progetto socialista è screditato… Certo, tutti fattori che incitano a temperare un po’ l’entusiasmo. Ma si tratta prima di tutto di salutare la magnifica lezione d’audacia, di coraggio d’intelligenza e di volontarismo (nel senso positivo del termine) data dagli Indignati/e di Puerta del Sol e di Piazza Catalunya!
“Try to begin to change the world” (“Provate a cominciare a cambiare il mondo”), diceva Ernest Mandel, partendo dall’ultima delle undici tesi di Marx su Feuerbach (“I filosofi non hanno solo interpretato il mondo in modi diversi, si tratta però di mutarlo”).
Parecchie migliaia di giovani hanno cominciato, dimostrando con i fatti che la nostra vecchia amica talpa scava sotto la superficie arida di questo capitalismo falsamente trionfante.
* Daniel Tanuro, ingegnere-ricercatore agronomo, è militante della Ligue communiste révolutionnaire (sezione belga della IV Internazionale). Ha recentemente pubblicato: L’impossibile capitalismo verde, Il riscaldamento climatico e le ragioni dell’ecosocialismo Les empêcheurs de penser en rond – Edizioni Alegre. La versione italiana di questo articolo (pubblicato in francese lo scorso 31 maggio) è stata curata dalla redazione di Solidarietà.
1. vedere l’HYPERLINK “http://www.youtube.com/watch?v=FZ3M-QmtcL4&feature=player_embedded” interview filmée de Eduardo Galeano, écrivain uruguayen.
2.cfr. l’articolo del 29 maggio di Fiona Harvey, The Guardian, Worst ever carbon émissions leave climate on the brink, disponible sur ESSF: http://www.europe-solidaire.org/spip.php?article21758
3.”Retraites: l’enjeu majeur est de voir le subversif dans le reel”, Bernard Friot, Carré Rouge n° 44, novembre 2010.