Il 29 e il 30 giugno 2011, grazie all’iniziativa dell’assemblea popolare di Arganzuela (distretto della città di Madrid), è stato organizzato un dibattito alternativo sulla piazza di Puerta de Sol, alternativo rispetto a quello che si svolgeva all’interno del Parlamento sullo “stato della nazione”. Sono intervenuto nei dibattiti del 30 giugno sulla crisi della legittimità della politica istituzionale nel mezzo della crisi sistemica nelle quale siamo coinvolti. Questo articolo riprende i temi che sono stati affrontati in questa occasione, aggiungendovi alcune nuove riflessioni sulle prospettive che si vanno delineando.
Credo che l’elemento più significativo del movimento del 15-M (15 maggio) è di aver fatto la dimostrazione che un’altra politica e un’altra forma della stessa siano possibili, questo in uno scontro aperto nei confronti di una pura gestione della crisi sistemica a favore del capitale finanziario e speculativo, gestione messa in atto dai governi dell’Unione europea. Una gestione che implica di portare un colpo mortale allo “Stato provvidenza” ormai in declino e un attacco brutale alle conquiste sociali di base, la cui manifestazione più importante e più estrema in corso è, oggi, quella greca.
Il movimento del M-15, con la sua espressione pubblica di indignazione di fronte a questo autentico “stato di eccezione economico e sociale” istaurato dopo la giornata fatidica del 7 maggio a Bruxelles (dichiarazione dei capi di Stato o di governo della zona euro relativa al “programma d’aiuto” alla Grecia), ha reso manifesta la profonda crisi di legittimità che investe la politica generata dalle istituzioni rappresentative.
Detto ciò, per capire quello che sta succedendo è necessario ricordare che la situazione nella quale ci troviamo non è nient’altro che la fine di un ciclo storico del capitalismo occidentale. Quest’ultimo, grazie ad accordi interclassisti che hanno seguito la Seconda Guerra Mondiale, ha potuto permettersi di rendere compatibili i propri bisogni di riproduzione sociale con l’ottenimento di una legittimazione politica tra quelli “in basso”, attraverso il riconoscimento graduale di una serie di diritti sociali; in cambio della quale i principali partiti e sindacati non hanno rimesso in questione il sistema e, nella scia, l’esercizio del supersfruttamento del Sud (Terzo mondo), delle donne e delle risorse fossili.
Il Maggio 68 ha cercato di superare questi limiti, ma non ha potuto disporre di una forza sufficiente per fare il salto. Però, abbastanza rapidamente, si è potuto capire che questi accordi erano asimmetrici e ingannevoli. Sono serviti a questo capitalismo fintanto che è durata la fase di espansione per, in seguito, passare – man mano che questa fase prendeva fine e che si imponeva la necessità di restaurare il tasso di profitto – a tagliare e svalutare le conquiste ottenute. Così ha preso forma il neoliberismo come progetto egemonico che è stato poi imposto –grazie anche al controllo dei grandi mezzi di informazione e di comunicazione – come un nuovo “senso comune” dominante anche presso ampie fasce della popolazione.
In questo processo, i sistemi di democrazia rappresentativa tendevano a deteriorarsi e i partiti si sono trasformati in apparati elettorali professionistici, rendendo numerose cariche pubbliche oggetto di “scambio politico”, ogni volta più vulnerabili alla corruzione. Questa dinamica ha provocato una disaffezione crescente dei cittadini nei confronti delle istituzioni e un rigetto della “classe politica”. Questo si riflette nell’astensione, i voti bianchi o nulli, ma anche nell’aumento della ricerca di forme di partecipazione politica non convenzionale. A questo si dive aggiungere il fatto che numerose persone che votavano per i grandi partiti continuavano a farlo semplicemente perché lo consideravano come un “male minore” e non per affinità ideologica. A maggior ragione, sapendo che, per quando riguarda le principali decisioni di politica economica e sociale, non sono i governi o i parlamenti che contano: sono i poteri extraparlamentari, quelli “in alto”, che impongo il quadro della politica del possibile. Come ha ben suggerito qualcuno: i mercati votano tutti i giorni.
Queste tendenze si sono espresse con una gravità maggiore nel caso spagnolo. E questo poiché, dopo la transizione politica [dal franchismo alla democrazia], si è formato un regime che non solo non ha regolato i necessari conti con il franchismo, ma si è fondato su uno zoccolo di garanzie che assicuravano la “governabilità” e la centralità dei grandi partiti politici; tutto questo non ha facilitato l’esercizio di forme di democrazia semi-diretta del tipo iniziativa legislativa popolare o referendum popolare, alla differenza di quanto successo in paesi molto vicini come l’Italia, come abbiamo potuto constatare ancora recentemente [allusione ai referendum abrogativi dei 12-13 giugno 2011]. Se aggiungiamo a questa “democrazia di bassa intensità” il costo crescente che ha implicato il processo di “integrazione europea”- in seguito al Trattato di Maastricht (febbraio 1992)- piazzato sotto l’egemonia neoliberale (privatizzazioni, precarizzazione del lavoro, degradazione ambientale) e il “capitalismo popolare”, con la bolla immobiliare che si è diffusa dalla metà degli anni 1990, alla luce di tutto questo era facile prevedere il cocktail esplosivo che si stava costituendo e che sarebbe scoppiato con la crisi sistemica del 2008. Malgrado ciò, sono state poche le voci (tra queste bisogna menzionare José Manuel Naredo e Ramon Fernandez Duran) che hanno dato l’allarme su questo tsunami di urbanizzazione, di degradazione ambientale e di corruzione che appaiono così “naturale”.
La “svolta” del governo Zapatero a partire da maggio 2010, con le sue contro-riforme successive messe in atto sotto gli ordini della “troika” (UE, FMI e Banca centrale europea), ha rappresentato una vergognosa sottomissione ai dettami di un sistema finanziario responsabile della crisi, sistema che, oggi, cerca di uscire impunito e rinvigorito sulle spalle di quelli che stanno “in basso”. El Roto [caricaturista satirico] descriveva con lucidità questa configurazione nel suo disegno del 1° luglio: “Il sistema finanziario è scappato! E sta distruggendo tutto”. Con l’assunzione di una posizione servile nei confronti dei “poteri di fatto”, all’esterno e all’interno della Spagna – l’amicizia con Botin, il padrone della banca Santander, è a questo proposito sufficientemente significativa, stiamo assistendo a una crisi di legittimità della rappresentanza politica. Perché una di queste legittimità è quella che si ottiene nelle urne (che è già attenuata dalla percentuale limitata di votanti attivi e per il fatto che le elezioni permettono a un partito determinato, il PSOE o il PP, di arrivare al “governo”) e l’altra è quella che deriva dalla sua messa in opera e che deve essere conquistata giorno per giorno attraverso le politiche adottate. Attualmente stiamo vedendo come quest’ultima è apertamente rimessa in questione dal fatto che queste politiche si scontrano con gli interessi della maggioranza sociale. E, cosa ancora più importante, si scontrano con la contestazione che viene da un movimento come quello del 15-M, la cui legittimità è stata corroborata a più livelli, persino in occasione delle inchieste di opinione più recenti. Per rendersene conto basta pensare ai successi ottenuti di fronte ai tentativi di criminalizzazione che ha conosciuto il movimento [allusione all’offensiva contro il movimento di Barcellona] o ancora alla sua capacità di paralizzare le espulsioni dagli appartamenti, o, ancora,alle iniziative prese contro le brutali retate anti-immigrati, ad esempio in alcuni quartieri di Madrid.
Siamo confrontati a uno scenario da cui nasce un possibile scontro di legittimità tra, da un lato, un sistema politico in campo dopo “l’immacolata transizione” – e che non si avventurerà nemmeno nella riforma della legge elettorale in vigore – e, dall’altro, il movimento del 15-M, nella misura in cui sarà capace di sviluppare un strategia di disobbedienza civile non violenta e, con essa, un’altra politica e un altro modo di farla. Perché, come ha ben detto Manuel Castells intervenendo all’accampamento di Barcellona, la ricostruzione della democrazia è necessaria, ma quest’ultima non può venire dal sistema stesso. Sarà necessario disporre di una mobilitazione sociale più importante in favore di una democratizzazione radicale della politica, di una demercificazione dei beni e dei servizi pubblici e, infine, della ricerca di un’uscita alternativa dalla crisi su scala europea. La molto probabile vittoria elettorale del PP alle prossime elezioni generali non farà che, così temiamo, produrre una più grande polarizzazione sociale che renderà più urgente la necessità di costruire un blocco politico, sociale e culturale contro-egemonico.
In ogni caso, ben coscienti degli ostacoli che abbiamo davanti, è evidente che l’irruzione del movimento è stato un “Avvenimento” nel senso forte del termine, che permette di allargare ogni volta di più il campo dei possibili e, sulla sua scia, di combattere il “senso comune” dominante fino ad ora. Il grande problema risiede nel fatto che questo “Avvenimento” non può contare su una sinistra all’altezza di quanto sarebbe necessario. E perché questa sinistra possa esistere, è necessario un rinnovamento radicale che non può essere il frutto di operazioni mediatiche. Alcune iniziative apparse di recente sono senza dubbio rispettabili, ma sembrano concentrarsi sulla volontà di unire la sinistra “dall’alto”, una sinistra che, nella sua grande maggioranza, non ha credibilità di fronte alle nuove generazioni protagoniste di questo movimento. Bisognerà cercare almeno delle nuove strade in questa prospettiva.
* Jaime Pastor è professore di Scienze Politiche à l’UNED. Partecipa all’assemblea popolare di Chamberi (distretto della città di Madrid). È membro della redazione della rivista spagnola Viento Sur sul cui sito è apparso questo articolo. La traduzione in italiano è stata curata dalla redazione di Solidarietà.