A partire dalla crisi economica del 2007 il conflitto sociale in Europa si è inasprito. Negli ultimi anni in Italia stiamo assistendo a un fermento sociale importante che vede tra i protagonisti principali i movimenti sociali di ogni tipo. Movimenti studenteschi, ambientalisti, migranti, gruppi di lavoratori auto-organizzati, scendono in piazza per rivendicare i diritti umani più fondamentali (diritto allo studio, diritto al lavoro, diritto all’alloggio ecc.) costantemente sotto attacco da parte del padronato. Uno dei fenomeni sociali più importanti, sono i lavoratori precari auto-organizzati. Solidarietà ha intervistato una giovane della Rete dei Redattori Precari (lavora per un’importante casa editrice italiana) nel tentativo di far luce sulla realtà del mondo del lavoro della vicina penisola.
Spiegaci brevemente che cos’è la rete dei redattori precari, quando e con quali obiettivi è nata.
La rete dei redattori precari (Re.re.pre) è una rete di lavoratori auto-organizzati che da più di tre anni si batte contro il precariato dilagante nel settore dell’editoria. L’esigenza di auto-organizzazione nasce dalla necessità di colmare il vuoto lasciato dalle tradizionali strutture sindacali che faticano a difendere i reali interessi dei lavoratori. Vogliamo essere un punto di riferimento per i redattori dell’editoria, informare sulle molteplici realtà contrattuali precarie che caratterizzano questo settore e attivarci per contrastarne lo sfruttamento. Noi lavoratori precari, proprio per il nostro statuto lavorativo atipico, siamo “isolati” da ogni attenzione sindacale e organizzarsi sul posto di lavoro risulta difficile. In quanto Re.re.pre. partecipiamo a San Precario, una rete che collabora con diverse realtà di lavoratori precari auto-organizzati sul territorio italiano (precari dell’amministrazione pubblica, dell’insegnamento, dei Call center ecc.) e ha legami coi movimenti sociali.
Lavoratori precari dunque. Ma cosa vuol dire essere precari oggigiorno, in generale e nel caso specifico dell’editoria? Quali difficoltà si incontrano?
Significa che non ci viene riconosciuta la nostra dignità di lavoratrici e lavoratori. Non abbiamo un lavoro fisso, un reddito sicuro e la nostra generazione guadagna meno rispetto ai nostri genitori nonostante il costo della vita in generale sia aumentato esponenzialmente. Nell’editoria, come negli altri settori, ci sono principalmente due tipologie di contratto che sono particolarmente emblematici dello statuto precario di noi lavoratori: il contratto a progetto, che può partire da un mese e arrivare a un massimo di 2 anni circa, e la cosiddetta “partita IVA”. Quest’ultima viene particolarmente prediletta in quanto permette all’azienda di alleggerirsi delle spese costituite dagli oneri sociali per il lavoratore e non essere in alcun modo perseguibile per inadempienze contrattuali (chi ha la p.iva lavora formalmente come “consulente esterno”, come “libero professionista”, in una posizione di indipendenza ma che nella maggioranza dei casi significa soltanto “lo stesso lavoro di un dipendente, ma senza tutele”). Nell’editoria italiana si arriva a lavorare anche tutta una vita come “freelance” in un clima di lavoro informale fatto di promesse e di vaghe speranze per il futuro. Questo fa si che il precariato diventi un problema esistenziale. Con un lavoro precario difficilmente è possibile costruirsi una famiglia (anzi, si rimane in casa a vivere con i genitori per lunghi periodi perché l’affitto costa!) o semplicemente garantirsi un futuro previdenziale a causa dei redditi intermittenti e dei salari da fame. Si riscontrano inoltre molte difficoltà nell’auto-organizzarsi in quanto lavoratrici e lavoratori proprio per il fatto di non ritrovarsi costantemente in azienda e perché particolarmente soggetti al ricatto (con un contratto atipico non c’è nemmeno bisogno di licenziare il lavoratore, basta non rinnovare il rapporto di collaborazione). Lo statuto di lavoratore precario è dunque uno strumento potente in mano all’azienda che rende difficile l’unione tra i lavoratori.
Di fronte alle condizioni di lavoro appena elencate, quali sono le vostre principali rivendicazioni? Per cosa vi battete?
La situazione è talmente disastrosa, nell’editoria come in altri settori, che vogliamo affermare la dignità del lavoro attraverso il rispetto dei diritti più fondamentali. Vogliamo dei salari orari minimi e vogliamo che gli oneri sociali siano a carico delle Case editrici poiché i loro profitti sono fatti sulle nostre spalle, attraverso la cosiddetta flessibilizzazione del lavoro. Non è pensabile pensare a convertire i contratti atipici in contratti a tempo indeterminato, non è nemmeno quello che chiediamo: chiediamo invece un nuovo welfare, nuovi diritti, una copertura sociale adeguata e salari dignitosi: il minimo credo!
Dopo la vostra incursione alla fiera del libro di Torino e la partecipazione alle proteste del 19 giugno durante la verifica di governo e in concomitanza con la giornata europea degli indignati, quali sono i vostri prossimi progetti a cui state lavorando e che relazioni intrattenete con le altre forze sociali presenti sul territorio?
La rete San Precario, e con essa anche Re.re.pre., sta pensando a una giornata di sciopero dei precari. Assemblee metropolitane di preparazione sono previste su tutto il territorio. In molte città importanti si sta lavorando in questo senso. A Roma e a Milano nell’editoria e nell’amministrazione pubblica come nell’insegnamento, a Bologna c’è un importante lavoro di contatto con i migranti (lavoratori precari per eccellenza) e anche a Torino ci sono molti gruppi di lavoratori organizzarti che condividono la necessità di uno sciopero precario, un percorso che mira a coinvolgere più realtà possibili: forze sindacali, i lavoratori precari autorganizzati, i movimenti sociali, la società civile che scende in piazza ed è attiva in rete. Evidentemente in tutto questo si pone un problema fondamentale: come far partecipare attivamente lavoratrici e lavoratori precari che non hanno diritto di sciopero e sono estremamente deboli e ricattabili rispetto all’azienda? Stiamo cercando nuove forme di mobilitazione e di rappresentanza che mettano in evidenza il conflitto sociale per poi giungere a delle conquiste concrete. Noi redattori precari siamo convinti che il tutto debba partire dall’auto-organizzazione dei lavoratori sui luoghi di lavoro e tramite la nostra azione speriamo di poter infrangere le barriere del silenzio e della paura dietro cui i lavoratori precari sono confinati.
Un ultima domanda. Per te che sei nata e cresciuta in Svizzera e intrattieni ancora rapporti regolari con questo paese, come vedi il fenomeno del precariato a livello svizzero rispetto al caso italiano?
Rispetto all’Italia, bisogna dire che in Svizzera esiste ancora una base di Stato sociale anche se in questo periodo storico viene costantemente attaccato e eroso. È chiaro che in Svizzera la flessibilità del lavoro trova un terreno fertile. Rispetto all’Italia è difficile fare rete e favorire l’auto-organizzazione dei lavoratori. Questo perché vi è un differente retroterra culturale, dove la tradizione operaia e di resistenza sociale non è paragonabile a quella italiana. Credo anche che molti lavoratori percepiscano quella sensazione di solitudine, di abbandono da parte delle organizzazione sindacali.
È fondamentale quindi costruire una coscienza sociale che permetta ai lavoratori e alle lavoratrici di reagire di fronte alle condizioni sempre più antisociali in cui si trovano, anche in Svizzera.