Abbiamo già scritto come la questione del ristorno fiscale dei frontalieri che lavorano in Ticino assume un senso solo se inserito nell’ambito della campagna dai contorni xenofobi che tutta la destra (dai liberali alla Lega passando per il PPD) stanno ormai conducendo da tempo attorno al frontalierato.
Obiettivo è spostare il centro dell’attenzione dai problemi essenziali che l’utilizzazione padronale della manodopera frontaliera sta creando in Ticino, favorita dagli accordi bilaterali e dalla liberalizzazione del mercato del lavoro: al dumping salariale e sociale sempre più diffuso.
Rientra in questa stessa ottica la discussione sul ristorno delle imposte dei frontalieri; l’idea che viene alimentata è che i lavoratori frontalieri non solo “rubano” posti di lavoro e accettano condizioni di salario più basse, ma “rubano” anche una parte delle imposte che vengono prelevate e ristornate ai loro comuni di residenza. Lo slogan all’insegna del quale si sviluppa tale campagna, e nella quale rientra la decisione presa giovedì dal governo di congelare metà dei ristorni fiscali ai comuni di frontiera potrebbe essere così riassunto: “ci rubano il lavoro, ci riprendiamo le loro imposte!”. Tutto un programma…
Delle tre richieste avanzate dal governo cantonale nell’ambito di una revisione dell’accordo sui frontalieri solo quella relativa all’introduzione della principio di reciprocità appare legittima. È vero infatti che un numero sempre più importante di persone residenti in Ticino lavorano quotidianamente al di là della frontiera: appare quindi giusto che il loro trattamento fiscale sia uguale a quello riservato ai residenti italiani della zona di frontaliera che ogni giorno vengono a lavorare in Ticino.
Appaiono invece discutibili (e frutto del clima al quale abbiamo prima fatto riferimento) le due altre richieste, cioè quella relativa ai cosiddetti “falsi frontalieri” e quella, principale, di ridefinire l’ammontare – evidentemente a favore del Ticino – delle attuali percentuali (circa 38,8% ai comuni di domicilio dei frontalieri, il resto al Cantone).
Sulla richiesta dei cosiddetti “falsi frontalieri” va rileva che si tratta di un problema che spetta al Ticino risolvere. Non vi sono dubbi che vi siano lavoratori che hanno uno statuto di frontaliere, ma che di fatto hanno ormai spostato il centro della loro vita in Ticino, dove passano buona parte della settimana,spesso affittando una casa, ecc.
In questi casi (che in realtà non sono molti) il problema ci pare facilmente risolvibile. Se un lavoratore ha inequivocabilmente il centro dei propri interessi in Ticino, dove magari soggiorna in modo quasi continuativo, deve essere tassato non più alla fonte, ma come qualsiasi altro cittadino che vive e lavora in Ticino. In questo caso il problema del ristorno delle imposte pagate non si pone più. Vale la pena ricordare che questa fattispecie è nota alle autorità fiscali dei cantoni svizzeri; capita spesso che qualcuno rimanga formalmente domiciliato nel proprio cantone di provenienza pur avendo il centro principale della propria vita e delle proprie attività in un altro. Se quest’ultima fattispecie è appurata l’autorità fiscale del cantone di attività ha il diritto di procedere alla tassazione.
E veniamo alla questione dell’ammontare. Le imposte prelevate sul reddito di chi lavora devono servire a finanziare le attività dello Stato: strade, ospedali, , amministrazione pubblica, scuole, sicurezza, socialità. Pagando questo 62%, in che misure un lavoratore frontaliere può far capo alle prestazioni dello Stato del canton Ticino?
Non utilizza le scuole (i figli studiano in Italia), nè l’amministrazione pubblica (un certificato, un documento di identità, ecc. deve recuperarli in Italia), nè il servizio sanitario cantonale (ospedali, ecc.) e nemmeno fa capo della sicurezza sociale (viene finanziata attraverso i prelevamenti – come per AVS, INSAI, ecc); non può beneficiare di sussidi (pensiamo a quelli relativi ai premi dell’assicurazione malattia) e, nemmeno fa un grande “consumo” di strade e infrastrutture pubbliche visto che i frontalieri percorrono, nel nostro cantone, pochi chilometri di strada per recarsi al lavoro. Eppure il Ticino, come detto, per queste prestazioni quasi nulle trattiene il 62% delle imposte pagate.
Non ci pare che finora qualcuno abbia portato un solo argomento (e diciamo uno) che dimostri che il Ticino, per le prestazioni che offre ai frontalieri attraverso le attività finanziate dagli introiti fiscali, debba prelevare una quota maggiore dell’attuale 62%. Né ci pare un argomento degno di nota il fatto che altri paesi (come l’Austria) si accontentino di un ristorno inferiore (il 12%).
Nell’ambito di una revisione dell’accordo la soluzione più equa ci pare quella di applicare due principi: la reciprocità e il fatto che ogni lavoratore venga tassato laddove è domiciliato. Con questa soluzione, conforme ai principi del diritto europeo e alla libera circolazione, tutta l’operazione si rivelerebbe, per il Ticino, una perdita secca di parecchi milioni.
Ma questa guerra “italo-svizzera”, ne siamo sicuri continuerà almeno fino alle elezioni nazionali, alimentata da chi pensa che possa rendere elettoralmente. La verità, come detto, è che in questo periodo, di fronte alla crisi sociale accelerata da fenomeni come il dumping salariale e in vista delle elezioni nazionali, alla destra liberal-pipidina-leghista fa comodo diffondere sentimenti xenofobi che individuano nei lavoratori frontalieri il classico capro espiatorio.
* articolo apparso sul quotidiano La Regione il 9 luglio 2011