È sicuramente un fatto nuovo ed eccezionale il cosiddetto movimento degli indignati che lo scorso 15 ottobre ha mobilitato in centinaia e centinaia di città di tutto il mondo almeno un milione di persone. Una mobilitazione simultanea come non se ne vedevano da quelle contro la guerra in Iraq, sebbene quella attuale sia dal punto di vista quantitativo sicuramente minore.
Cosa accomuna i dimostranti di paesi assai differenti, seppur tutti appartenenti al Nord del pianeta?
Diremmo perlomeno tre aspetti.
Il primo un’idea di fondo, espressa magari con accenti, sfumature e linguaggi diversi a seconda dei paesi, che i problemi fondamentali e drammatici con i quali sono confrontati centinaia di milioni di persone in tutto il mondo sono da ricondurre ad una profondamente iniqua distribuzione della ricchezza insita nel sistema capitalista. L’offensiva in atto ormai da qualche decennio, tesa a modificare ulteriormente la distribuzione della ricchezza a favore del capitale, ha cancellato i leggeri progressi che questa distribuzione aveva potuto fare nel corso dei cosiddetta “trenta gloriosi” anni di sviluppo del dopoguerra. Il re è nudo: lo sviluppo capitalistico fondo di “ricchezza” e “benessere” per tutti è ormai un mito al quale nessuno più crede.
Il secondo aspetto è quella che potremmo chiamare la trasversalità delle persone e dei problemi coinvolti in questi movimenti. La mobilitazione, quella americana è esemplare da questo punto di vista, vede convergere persone che partono da problematiche concrete diverse. Chi non può più pagare il mutuo per la casa e se la vede sequestrare; chi non può restituire il prestito contratto per studiare e deve interrompere gli studi; chi non ha un lavoro fisso ed è costretto a sopravvivere nella precarietà; tutti problemi concreti, punti di approccio differente; che, tuttavia, convergono partendo da due aspetti: da un lato l’insopportabilità di questa condizione, dall’altro la specularità di questa condizione rispetto a quella di una minoranza (quell’1% di possidenti evocato in tutte le manifestazioni) che, invece, non ha fatto che continuare ad accrescere la propria ricchezza.
Il terzo aspetto fondamentale è la ricerca di forme di organizzazione e di lotta diverse da quelle del passato. L’idea stessa dell’accampamento è legato a quello di portare al centro dei luoghi del capitalismo l’insieme di questi problemi, di volerli porre in modo permanente, al di fuori dei desueti ed ormai impotenti luoghi istituzionali, con l’idea che da questa presenza possano poi nascere alleanze, sviluppare rivendicazioni e permettere ulteriori passi al movimento.
Ma accanto a queste forme di lotta va ricordata anche la modalità estremamente democratica di questi movimenti che cercano, nella loro forma aperta, di immaginare un’altra forma di organizzazione del mondo, della politica, della società.
Affermare che tutto questo sia l’inizio di un movimento che rovescerà il capitalismo mondiale non ha certo alcun senso. La capacità di resistenza, di recupero e di integrazione delle classi dominanti e dei loro alleati nel campo politico (di “destra” e di “sinistra”) restano immense. Ma non vi sono dubbi che questa esperienza dell’autunno 2011 può segnare una svolta nella consapevolezza di centinaia di milioni di persone in tutto il mondo della necessità e dell’urgenza di abbattere questo sistema indegno.