L’articolo di Khalil Habash – storico e militante siriano – che pubblichiamo di seguito non ha per obiettivo un aggiornamento sul momento attuale. Cerca di mettere in guardia contro schemi analitici che attribuiscono una centralità alla “configurazione confessionale” per la comprensione della situazione attuale in Siria.
Facendolo, queste interpretazioni convalidano uno dei “meriti” che si attribuiscono alla dittatura del clan Assad: “il mantenere l’unità della Siria” contro “tentativi di smembramento”. Questo articolo è stato redatto alla fine di settembre del 2011. Il 2 ottobre 2011, a Istambul, si è costituito il Consiglio Nazionale Siriano, in continuità con molteplici sforzi. Il CNS rivendica la sua indipendenza. Dice di riunire la maggioranza delle correnti dell’opposizione, in particolare i Comitati di coordinamento locali (LCC), i liberali, i Fratelli Musulmani e i partiti curdi e assiri. Per il momento, l’unico candidato dichiarato per mettersi alla testa del CNS è Burhen Ghaliun, un universitario famoso, in esilio a Parigi.
Venerdì 7 ottobre, il dirigente curdo Mechaal Tamo è stato assassinato nella città di Qamichli, situata nel nordest del paese. Mechaal Tamo era stato recentemente liberato, dopo aver passato tre anni e mezzo in prigione. Aveva rifiutato una proposta di dialogo presentata alle organizzazioni curde dal potere. I Comitati di coordinamento locali hanno accusato il regime di tentare di “liquidare fisicamente le figure dell’opposizione”. I funerali di Mechaal Tamo, a Qamichli, hanno riunito circa 50.000 persone. Le “forze dell’ordine” hanno sparato, facendo almeno due morti e numerosi feriti. A Dmeir, vicino a Damasco, in altri funerali, domenica 9 ottobre, le forze repressive hanno colpito con la stessa mano assassina.
In questo contesto non può non stupire – o forse no – che il ministro della comunicazione della Bolivia, Ivan Canelas, e una delegazione dell’ ALBA (Alianza Bolivariana para los Pueblos de Nuestra América) si trovi a Damasco per mostrare il suo appoggio al regime dittatoriale di Bachar el-Assad. Vero è che il ministro degli esteri del Venezuela, Nicola Maduro, non ha dubitato di parlare di una “grande cospirazione mediatica” contro il regime siriano! Cosa che ricorda le peggiori stupidaggini false e complici della “guerra fredda”. Però, questa volta, queste sciocchezze sono formulate in nome dei valori di un preteso “socialismo del secolo XXI”. [Nota della Redazione di A l’encontre].
La rivoluzione siriana è entrata nel suo settimo mese di lotta contro il regime di el-Assad. Il numero delle persone morte in Siria è ora superiore a 2900 (dal 15 marzo), mentre non si sa niente della sorte di più de 3.000 manifestanti. Durante il mese sacro del Ramadán (dal 1 al 30 agosto 2011), 473 manifestanti sono morti. La repressione esercitata dalle forze di sicurezza siriane dalla metà di marzo ha portato all’arresto di più di 70.000 persone. Inoltre, secondo l’Osservatorio siriano per i Diritti Umani, con sede in Gran Bretagna, 15.000 persone restano in carcere. Le scuole e gli stadi di calcio si sono trasformati in centri di detenzione e di tortura.
Nonostante la violenta repressione della quale è oggetto, l’obiettivo del movimento popolare siriano continua a essere lo stesso, come dimostrava lo slogan della manifestazione di venerdì 30 settembre: “Continueremo fin che faremo cadere il regime”.
Analisti che deformano la realtà
Numerosi analisti e specialisti della regione hanno spiegato questo movimento, la sua dinamica o il suo fallimento attraverso il “prisma confessionale”, “comunitario”. Utilizzano molto spesso la storia della Siria al fine di provare che lì sta la prova di un paese diviso, frammentato. Numerosi di loro descrivono il regime di Assad come qualcosa che ha a che fare con una dominazione alauita. Altri dicono che determinate minoranze appoggiano questo regime perché erano protette e vivevano tranquillamente sotto questa dominazione. Altri invece si concentrano sulla composizione religiosa dell’opposizione che è composta principalmente da musulmani sunniti. Qualcuno afferma che la soluzione sta nella necessità di dare garanzie di protezione ai “gruppi minoritari” in una possibile era post Assad – includendo gli alauiti- affinché si uniscano alla rivolta.
Questi due discorsi sono lontani dalla realtà del movimento popolare siriano e alla sua dinamica. E la storia del paese è deformata. La maggior parte dei giornalisti descrivono la storia della Siria come qualcosa che si riassume in una lotta tra forze confessionali; alcuni arrivano al punto di affermare che “le minoranze siriane hanno conosciuto sempre uno status precario e sono state frequentemente oggetto di persecuzioni” o che “per le minoranze, Assad rappresenta la sicurezza”, cosa molto lontana dalla realtà.
Il regime si è descritto sempre come il protettore delle minoranze contro la pretesa minaccia dell’estremismo islamico. Si tratta di fatto di uno strumento utilizzato da questo regime autoritario e borghese per dividere i siriani e deviare la critica dalla corruzione che regna nel suo seno e dalla repressione. Pero le minoranze e i siriani in generale – laici o religiosi – non hanno bisogno dell’assistenza o della protezione di una dittatura per vivere tranquillamente e partecipare attivamente nel destino della Siria.
Un paese pluriconfessionale
Fares el Khoury, un siriano di origine cristiana, fu due volte primo ministro dopo la Seconda Guerra Mondiale. Fu eletto, tra gli altri, da Mustapha Siba´i (1915-1964), membro del parlamento siriano tra il 1949 e il 1954), fondatore dei Fratelli Musulmani in Siria. Quest’ultimo, sostiene nella sua opera “Le socialisme de l´islam (1959)” che l’Islam mostra un modello unico di socialismo in conformità con la natura umana, fondata su cinque diritti naturali: la vita, la libertà, la conoscenza, la dignità e la proprietà.
Il Baas fu co-fondato da Michel Aflak (1910-1989), un siriano d’origine cristiana. Questo partito era uno dei più popolari in Siria e nel Mashrek prima che si convertisse in un partito autoritario y repressivo nelle mani di Hafez al-Assad in Siria e di Saddam Hussein in Irak.
Edmont Rabbath, un siriano d’origine cristiana, fu il primo ambasciatore siriano all’ONU. La rivoluzione siriana del 1925 contro l’occupante francese era diretta dal leader druso Sultan al-Atrash (1891-1982) con l’ aiuto di altre personalità di orientamenti diversi come Ibrahim Hananou (1869-1935), di origine curda, mentre tutte le regioni, e tutte le confessioni e comunità della Siria si ribellarono contro la divisione del paese imposta dal Mandato francese.1/ Numerose personalità e intellettuali alauiti hanno avuto un ruolo importante nella storia siriana, come Saadalla Wannous (1941-1997), drammaturgo e militante siriano.
In questo senso, i Fratelli Musulmani non furono l’unica forza che lottò contro il regime ie Assad durante gli anni ’80. La repressione non fu limitata d’altra parte solo ai Fratelli Musulmani (con il massacro di Hama nel 1982), visto che si estese a tutte le forze politiche della sinistra, che subirono ondate successive di arresti fino allo strangolamento. Migliaia di militanti conobbero la morte, la tortura e il carcere senza processo grazie allo stato d’emergenza in vigore da un lungo periodo (1963), oppure furono costretti all’esilio. La società fu praticamente svuotata delle sue forze vive.
Un movimento nazionale e pacifico
Il movimento popolare siriano è un movimento pacifico e nazionale, che esige la dignità, la libertà, la giustizia sociale, lo sviluppo economico e riforme politiche. Gli slogan principali dei manifestanti sono: “Uno, uno, il popolo siriano è uno!”, Silmiya, silmiya!” (pacifica, pacifica), così come “Il popolo vuole abbattere il regime!”.
L’opposizione siriana ha presentato continuamente un fronte unito contro il rischio di una guerra civile nazionale e confessionale. Gli slogan dei manifestanti come “Tutti siamo siriani, siamo uniti!” sono ripetuti permanentemente durante le manifestazioni e in diverse reti come Facebook o Twitter. In numerose manifestazioni possiamo veder striscioni che affermano: “No al settarismo”.
È una rivolta nazionale e popolare, che unisce l’insieme delle comunità di Siria, oltre i ritmi de entrata nel movimento. Nella città di Qamishly, i manifestanti gridavano per la libertà e il cambiamento in arabo, curdo e assiro: “Hurria! Azadi! Houriyeto!”. Liberarono anche palloncini con la parola pace scritta in differenti lingue. C’erano anche striscioni in arabo sui quali c’era scritto: “Arabi, curdi, assiri, siríaci: siamo tutti siriani!”. A Banyas, più di 1000 donne hanno sfilato dopo il discorso de Bachar al-Assad alla televisione nazionale gridando: “No sunnita, no alauita. La libertà è tutto quello che vogliamo!”.
Le minoranze hanno avuto una parte importante in questa rivolta, insieme ai musulmani sunniti, e questo in tutto il paese. Dai cristiani agli alauiti passando per i drusi, tutti hanno avuto la loro parte nel processo rivoluzionario in corso. Per esempio, una recente dichiarazione di militanti siriani cristiani che appoggiano la rivoluzione denunciava la proclamazione fatta in Francia dal patriarca maronita Bechara Boutros Rai che diceva che l’abbattimento del regime di Assad sarebbe una minaccia per i cristiani in Siria /2. Ricordano al patriarca Rai che i cristiani hanno vissuto durante “centinaia di anni con i loro fratelli siriani senza timore e nessuno, assolutamente nessuno, ha merito su questo terreno: i cristiani sono una parte indivisibile di questo paese”. Anche la comunità alauita è presente nel processo rivoluzionario, tramite i suoi intellettuali come Louai Hussein, Samar Yazbeck e molti altri, mentre gruppi di militanti di base e in Internet sono ugualmente attivi come il Ittilaf shebab alawyye doud al nizam al Assad (l’ Alleanza dei Giovani contro il Regime di Assad). Hanno condannato il comportamento del regime in numerose occasioni e fatto ricadere la responsabilità degli scontri inter-confessionali sulla politica del regime e le sue caratteristiche repressive. Numerosi militanti delle confessioni minoritarie si sono convertiti in martiri di questa rivoluzione, mentre alcuni sono stati e sono torturati e continuano a essere in prigione. La repressione ha colpito tutti i ribelli, indipendentemente dalla loro confessione. È questa la pretesa protezione offerta dal regime alle minoranze, punto di vista recuperato -da angolature diverse- da certi “analisti”?
Difendere l’unità del popolo siriano
L’opposizione siriana in grande maggioranza, tanto nell’esilio come all’interno del paese, denuncia le divisioni confessionali e difende l’unità del popolo siriano. Il Coordinamento dei Comitati Locali – che sono reti militanti di base che aiutano l’organizzazione e documentano le manifestazioni – produce una lettera di informazione giornaliera destinata ai media arabi ed internazionali. In una dichiarazione recente contro l’intervento straniero e la militarizzazione della rivoluzione, spiegava che l’obiettivo della rivoluzione siriana non è limitato solo al rovesciamento del regime, ma mira a costruire un sistema democratico e un quadro a livello nazionale che salvaguardi la libertà e la dignità del popolo siriano. La Commissione Generale della Rivoluzione Siriana, che ora ha circa 120 comitati locali, ha fatto appello a una rivoluzione pacifica, lontana da qualsiasi settarismo e contro un intervento militare straniero per costruire una Siria democratica, sociale e ugualitaria. Il gruppo facebook La Rivoluzione Siriana 2011 ha condannato ripetutamente il settarismo e tutti i tipi di discriminazione tra i siriani, dando la priorità alla bandiera nazionale, contro il tentativo del regime di dipingere il movimento di protesta come confessionale. Questo gruppo facebook ha pubblicato, il 24 di marzo del 2011, un Codice Etico contro il settarismo in Siria. Le denominazioni attribuite alle manifestazioni di venerdì sono state decise dagli organizzatori al fine di essere il più possibile inclusive, designando per esempio il venerdì “Azadi” (libertà in curdo), quando avevano chiamato il venerdì precedente il fine settimana pasquale “Azime” (grande), in riferimento alla festa cristiana. Infatti, in Siria, i cristiani chiamano “gran venerdì” il venerdì che precede la Pasqua.
Un regime clientelare
Possiamo sottolineare che, giorno dopo giorno, i manifestanti e i gruppi di opposizione in tutta la Siria hanno visto crescere la loro coscienza politica. Partecipano sempre di più a dibattiti politici ogni volta che organizzano e documentano le manifestazioni nelle strade. In realtà, il regime è l’unico che ha utilizzato le divisioni religiose per tentare di controllare la società e dividere la popolazione siriana. Ha costruito un esercito secondo criteri confessionali al fine di mantenere la sua lealtà. Mentre la maggioranza delle reclute sono sunniti – dovuto al fatto che costituiscono la maggioranza della popolazione – il corpo degli ufficiali è soprattutto alauita. Ciò nonostante, questo regime è sopratutto un regime clientelare che trova uno dei suoi principali appoggi – oltre che nell’apparato repressivo – tra la borghesia maggioritaria sunnita e cristiana di Aleppo e di Damasco, che ha beneficiato delle politiche neo liberali realizzate in questi ultimi anni dal regime. Quest’ultimo ha intrecciato una rete di lealtà attraverso legami, vincoli – innanzitutto d’ordine finanziario e economico – con individui di differenti comunità. Delle politiche economiche del regime hanno beneficiato una piccola oligarchia e alcuni dei suoi clienti. La politica di liberalizzazione economica del regime ha riprodotto quasi la situazione socio-economica che prevaleva prima che i baasisti prendessero il potere nel 1963: il 5% della popolazione possiede più del 50% del reddito nazionale.
Un regime in fallimento
Oggi, la rivolta popolare siriana certifica il fallimento del progetto del regime. Il Baas era stato popolare trent’anni fa, quando offriva un progresso sociale nelle zone rurali e tra le minoranze religiose. Ora, il partito Baas è un guscio vuoto. Le rivolte a Deraa come quelle delle altre zone rurali, bastione storico del partito Baas e del regime, che non avevano preso parte alla insurrezione degli anni 1980, mostrano questo fallimento. Città come Qamichli (nordest del paese), Hama e Homs hanno partecipato al movimento di protesta, così come tutte le diverse comunità della Siria, dai curdi discriminati, fino ai musulmani in genere e i cristiani. In conclusione, il movimento di protesta unisce come ha unito gli egiziani e i tunisini durante le loro rivoluzioni. Nessuna effettiva unità, considerando la realtà del paese, è possibile sotto una dittatura che sviluppa al contrario una strategia di timori tra le comunità. Una politica che trova disgraziatamente, una traduzione sul piano dell’analisi tra numerosi giornalisti e analisti.
Il movimento popolare in Siria lotta, di fatto, per l’unità del popolo siriano e contro le divisioni; lo fa sviluppando un sentimento di solidarietà nazionale e sociale che supera le divisioni etniche e confessionali. Questa è l’unica garanzia per i siriani, indipendentemente dai loro vincoli con una comunità o un’altra. C’è bisogno della vittoria della rivoluzione antidittatoriale al fine di costruire una Siria nuova, democratica, sociale e indipendente.
1) Al termine della Prima Guerra Mondiale, la Francia ha ricevuto un “mandato” dalla Società delle Nazioni sul Libano e la Siria, antichi possedimenti ottomani. Il mandato riconosceva loro l’indipendenza provvisoria, alla condizione però che i due paesi fossero guidati dai consigli e dall’aiuto del mandatario fino al momento in cui fossero capaci di funzionare da soli. Contemporaneamente la Gran Bretagna riceveva un mandato analogo per l’Iraq, la Transgiordania (attuale Giordania) e la Palestina. Questi mandati di fatto erano la legalizzazione dei negoziati segreti realizzati durante la guerra tra Francia e Gran Bretagna per il controllo e la spartizione del Medio Oriente e delle sue risorse petrolifere. L’accordo tra i due paesi era noto come Sykes-Picot, dal nome dei due diplomatici che lo avevano definito nel 1916. Su questo, si veda l’articolo di Henry Laurens sulla spartizione dell’impero ottomano nel numero 4/2003 de “Le Monde Diplomatique”. (ndr).
2) Monsignor Béchara Boutros Rai, 77º patriarca maronita di Antiochia e di tutto l’Oriente dal marzo 2011, ha dichiarato il 7 settembre a Parigi, davanti alla conferenza dei vescovi francesi, che avrebbe “preferito che si dessero maggiori opportunità ad Assad per fare le riforme politiche che ha cominciato. (…) Era necessario dare più possibilità al dialogo interno. (…) Non stiamo col regime, ma temiamo la transizione”. (AFP dell’8 settembre 2011) (ndr).
* Articolo apparso sul sito www.alencontre.org. Traduzione in italiano è stata curata da Flavio Guidi per il sito http://antoniomoscato.altervista.org/.