Basterebbe andarsi a leggere i programmi dei partiti del cosiddetto “nuovo centro” per rendersi conto di quanto surreale siano i commenti ed il dibattito politico avviatosi dopo il risultato delle elezioni nazionali.
Basterebbe cominciare con quello del PBD (la scissione dell’UDC che sostiene Widmer Schlumpf) che, al primo posto delle sue rivendicazioni, propone quello che è uno dei cavalli di battaglia tradizionali dell’UDC: l’introduzione dello stesso principio alla base della legge sul “freno all’indebitamento” per ognuna delle assicurazioni sociali (AVS,AI, AD, ecc.). Una proposta, come molte altre, che permette di situare questo partito in modo ben più preciso che un insignificante richiamo al “centro”.
Le idee della destra liberale si rafforzano
D’altronde solo chi ragiona in termini giornalistici, spesso “disattenti” alla realtà concreta delle scelte politiche, può teorizzare la nascita di un nuovo “centro” (più forte avanzata elettorale dei Verdi Liberali e del PBD) e la crisi della destra che sarebbe rappresentata dall’UDC (che ha perso qualche seggio).
In realtà potremmo dire che gli orientamenti dell’UDC, sfrondate da qualche punta polemica e impresentabile, sono diventati il terreno politico comune ad un ampio fronte dello schieramento politico. Potremmo passare in rassegna i temi sui quali ormai le differenze tra il cosiddetto “centro” e la “destra” sono ormai ridotti al minimo, rappresentando spesso solo un elemento che permette ai partiti politici di profilarsi e di differenziarsi sul terreno dell’offerta elettorale.
Per tutta quest’area appare evidente la necessità di dare più forza al mercato, alle sue leggi, alle sue dinamiche quali risposte alla crisi nella quale si dibatte il mondo capitalista. Le differenze, molto spesso, stanno sostanzialmente sul grado più o meno elevato di spinta verso queste dinamiche liberali.
Possiamo quindi dire che il fronte liberale, nel senso indicato qui sopra, si sia nettamente rafforzato in questa tornata elettorale, avendo guadagnato anche una componente in grado di parlare, in questa prospettiva, anche ad un elettorale che prima si rivolgeva ad altri attori, quali i Verdi e il PS.
Più debole il fronte social-liberale
Non esce bene da queste elezioni il fronte social-liberale (PSS e Verdi). Né poteva essere altrimenti in un contesto politico e sociale, come quello che abbiamo indicato qui sopra, caratterizzato dall’avanzamento del fronte liberale. Verdi e PSS hanno cercato, in tutti i modi, di recuperare voti “al centro” con una campagna che ha cercato di mettere in avanti la necessità di “concordanza” e di temperare la scelta di fondo del capitalismo e delle sue logiche (che sul fondo essi non contestano) con adeguate “misure di accompagnamento” di ordine più sociale (per il PSS) o ambientale (per i Verdi).
Questo tentativo di smussare alcune posizioni che aprivano la via al recupero elettorale della destra si sono ben viste sulla questione dell’UE. Il PSS ha messo la sordina alla propria tradizionale posizione di adesione e, in contesti particolari – come ad esempio il Ticino, i suoi candidati si sono “spinti” fino a dire che non erano favorevoli all’adesione all’UE “in questo momento”, “attualmente”, “non a breve termine”.
Un momento in cui la logica dell’UE appare in tutta la sua assurda dinamica, frutto delle scelte fatte al momento della sua costituzione, patrocinata in modo fondamentale, tra l’altro, dalle forze social-liberali europee. La UE non ha cambiato pelle, né tantomeno lo ha fatto in questi ultimi anni; l’UE è nata come progetto al servizio degli interessi non certo dei popoli europei, ma delle classi dominanti europee nei loro progetti di costituire un polo di concorrenza del capitale di fronte al capitale nordamericano e a quelli emergenti degli altri continenti. La crisi del capitalismo mondiale ha solo accelerato e messo in evidenza queste contraddizioni di fondo. Non è mai esistita, se non nella testa fantasiosa di qualcuno, un’ Unione Europea “progressista” dalla quale i lavoratori e le lavoratrici di questo paese avrebbero solo potuto ricevere stimoli positivi per le loro condizioni di vita e di lavoro. Basti qui ricordare, a chi ha la memoria corta, che la “svolta liberista” rappresentata dalla UE appare chiaramente fin dagli anni ’90 (criteri di Maastricht, libro bianco sulla competitività, direttive sull’orario di lavoro, direttive sulla liberalizzazione nei settori dei trasposti, delle comunicazioni, accordo di Bologna sulla università, ecc.).
Ma anche sugli altri temi la risposta social-liberale è apparsa tutta interna alle istituzionali: per ogni tema ecco un’iniziativa popolare bella e pronta. Iniziative poi nella realtà non solo spesso in ritardo (come quella, ancora in corso, sul salario minimo), ma spesso (anche per il loro contenuto moderato – è ancora il caso dell’iniziativa sul salario minimo) destinate al sicuro fallimento.
In poche parole il fronte social-liberale ha deciso di non offrire alcuna prospettiva, seppur lontana, di alternativa al liberalismo capitalista, limitandosi ad offrire una alternativa gestionale ed istituzionale al capitalismo realmente esistente. Una prospettiva che, di fronte alla grande crisi nella quale viviamo, di fronte alla crisi sistemica nella quale il capitalismo si dibatte, non poteva che apparire poco in grado di mobilitare chi di questa crisi subisce a fondo le conseguenze.
I salariati vanno in montagna (in assenza del mare…)
Malgrado questa volta si sia raggiunta una partecipazione del 49%, il Parlamento svizzero con questa elezione ha superato il trentennio di presenza minoritaria nel paese. È infatti dalle elezioni nazionali del 1979 che è una minoranza degli aventi diritto ad eleggere il Parlamento. Se a questo aggiungiamo la forte presenza di immigrati stabili nel paese, è evidente che il Parlamento svizzero rappresenta una minoranza di una minoranza dei salariati del paese. Che, a loro volta, rappresentano la spina dorsale degli astensionisti, il maggior partito del paese.
Un dato che la dice lunga sulla crisi della rappresentanza politica nel capitalismo contemporaneo (è un dato ormai diffuso in tutti i paesi) e che mette in evidenza anche il ruolo di “cambiamento” che può avere una qualsiasi politica istituzionale.
Un’altro politica. Un impegno diverso.
A fare le spese di questo mutamento ulteriore dei rapporti di forza è la cosiddetta “sinistra radicale”, cioè quelle forze che tradizionalmente (e spesso al di là delle loro reali posizioni politiche) vengono catalogate “a sinistra” del PSS.
Il Partito del Lavoro, Solidarités, la galassia delle alternative linke in Svizzera tedesca restano fuori dal Parlamento con scarsi risultati.
D’altronde quasi tutte queste forze erano alleate al PSS e ai Verdi, difendendo spesso orientamenti e programmi “compatibili” con quelli del PSS.
Naturale e logico che gli elettori non capiscano, stando così le cose, le differenze e votino, soprattutto in un contesto come quello attuale, per il PSS, forza che appare come più suscettibile di “contare” a livello istituzionale.
Noi non siamo, per principio, contrari ad una presenza istituzionale. Ma essa deve avere un senso in relazione ad uno statuto della politica che vede nell’azione quotidiana nella società, nel tentativo di mettere in modo forze ed energie sociali, il motore fondamentale della trasformazione sociale.
Senza questa bussola qualsiasi impegno istituzionale, qualsiasi dinamica elettorale, prima o poi mostrerà tutti i suoi limiti.