Si salvano i mercati e non il clima. Potremmo riassumere così il risultato dell’appena terminata 17a Conferenza delle parti (COP 17) delle Nazioni Unite sul Cambiamento Climatico a Durban, Sudafrica, tenutasi dal 28 novembre al 10 dicembre. La rapida risposta che governi e istituzioni internazionali hanno dato allo scoppio della crisi economica nel 2008 salvando banche private con soldi pubblici contrasta con l’immobilismo davanti al cambiamento climatico. Anche se questo non ci dovrebbe sorprendere. Tanto in un caso, quanto nell’altro vincono gli stessi: i mercati e i loro governi complici.
Nel vertice sul clima di Durban due sono stati i temi centrali: il futuro del Protocollo di Kioto, che termina nel 2012, con la capacità di stabilire meccanismi per la riduzione delle emissioni; e la messa in moto del Fondo Verde per il Clima, approvato nel precedente vertice di Cancun, con l’obiettivo teorico di appoggiare i paesi poveri nell’attenuazione e nell’adattamento al cambiamento climatico.
Dopo Durban possiamo affermare che un secondo periodo del Protocollo di Kioto è rimasto vuoto di contenuto: l’azione concreta è stata rimandata al 2020 ed è stato rifiutato qualunque tipo di strumento che obblighi alla riduzione delle emissioni. Così hanno voluto i rappresentanti dei paesi più inquinanti, con gli Stati Uniti in testa, i quali chiedevano un accordo di riduzioni volontarie e rifiutano qualsiasi tipo di meccanismo vincolante. Ma se già il Protocollo di Kioto era insufficiente, e la sua applicazione evitava solo lo 0,1° centigrado di riscaldamento globale, ora andiamo di male in peggio.
Attorno al Fondo Verde per il Clima, se in un primo momento i paesi ricchi si sono impegnati ad apportare 30 mila milioni di dollari nel 2012 e 100 mila milioni annui per il 2020, cifre che in ogni caso sono considerate insufficienti, l’origine di questi fondi pubblici è rimasta da stabilire, mentre si aprono le porte all’investimento privato e alla gestione della Banca Mondiale. Come hanno segnalato alcune organizzazioni sociali si tratta di una strategia per “trasformare il Fondo Verde per il Clima in un Fondo Imprenditoriale Goloso”. Ancora una volta si pretende di fare affari con il clima e l’inquinamento ambientale.
Un altro esempio di questa mercificazione del clima è stato l’avallo dell’ONU alla cattura e stoccaggio del CO2 come Meccanismo di Sviluppo Pulito, che non mira a ridurre le emissioni e che acuirebbe la crisi ambientale, specialmente nei paesi del Sud candidati a futuri cimiteri di CO2.
Così, i risultati del vertice puntano a più capitalismo verde. Come indicava l’attivista e intellettuale sudafricano Patrick Bond: “La tendenza a mercificare la natura è diventata il punto di vista filosofico dominante nella governance mondiale ambientale”. A Durban si ripete il copione dei precedenti vertici come quello di Cancun 2010, Copenaghen 2009… in cui gli interessi delle grandi multinazionali, delle istituzioni internazionali e delle élite finanziarie, tanto del Nord come del Sud, sono anteposti alle necessità collettive della gente e al futuro del pianeta.
A Durban c’era in gioco il nostro futuro ma anche il nostro presente. Le devastazioni del cambiamento climatico stanno avendo i loro effetti: liberazione di milioni di tonnellate di metano dell’Artico, un gas 20 volte più potente del CO2 dal punto di vista del riscaldamento climatico; arretramento dei ghiacciai e dei manti di ghiaccio che aumenta il livello del mare. Effetti che aumentano il numero delle migrazioni forzate. Se nel 1995 c’erano circa 25 milioni di migranti climatici, oggi questa cifra è raddoppiata, 50 milioni, e nel 2050 questa potrebbe salire a tra 200 e mille milioni di sfollati.
Tutto indica che ci dirigiamo verso un riscaldamento globale incontrollato superiore ai 2° C e che potrebbe aggirarsi intorno ai 4° C, per la fine del secolo, cosa che innescherebbe molto probabilmente, secondo gli scienziati, effetti ingestibili, come l’innalzamento di vari metri del livello del mare. Non possiamo aspettare fino al 2020 per cominciare a prendere misure concrete.
Ma di fronte alla mancanza di volontà politica a farla finita con il cambiamento climatico, le resistenze non si zittiscono. Ed emulando Occupy Wall Street e l’onda d’indignazione che attraversa l’Europa e il mondo, vari attivisti e movimenti sociali si sono incontrati quotidianamente in un forum a pochi metri dal centro di congressi ufficiali sotto il motto di “Occupy COP17”. Questo punto d’incontro ha riunito dalle donne contadine che lottano per i loro diritti fino a rappresentanti ufficiali di piccoli stati isolani come le Seychelles, Granada o Nauru minacciati da un innalzamento imminente del livello del mare, passando per attivisti contro il debito estero che reclamano il riconoscimento e la restituzione di un debito ecologico del Nord verso il Sud.
Il movimento per la giustizia climatica segnala come, di fronte alla mercificazione della natura e dei beni comuni, è necessario anteporre le nostre vite e il pianeta. Il capitalismo si è dimostrato incapace di dare risposte al vicolo cieco nel quale la logica produttivista, di breve termine e depredatrice ci ha condotto. Se non vogliamo che il clima cambi è necessario cambiare radicalmente questo sistema. Ma i risultati di Durban puntano in un’altra direzione. Il riconosciuto attivista ecologista nigeriano Nnimmo Bassey lo ha espresso chiaramente con queste parole: “Questo vertice ha amplificato l’apartheid climatica, in cui l’1% più ricco del mondo ha deciso che è accettabile sacrificare il restante 99%”.
* Josep Maria Antentas è professore di sociologia dell’Universitat Autònoma de Barcelona e Esther Vivas è membro del Centre d’Estudis sobre Moviments Socials dell’Universitat Pompeu Fabra. L’articolo è stato pubblicato sulla rivista spagnola Público il 13 dicembre 2011. La traduzione in italiano è stata curata dalla redazione di Solidarietà.