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La crisi fa male alla salute mentale dei lavoratori. E’ questa in estrema sintesi la conclusione a cui giunge uno studio, recentemente pubblicato dall’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE).

Secondo l’OCSE (organizzazione che riunisce i 34 paesi tra quelli economicamente più avanzati oltre ad alcune economie dette emergenti come Cile, Turchia e Messico) “la precarizzazione crescente dell’impiego e l’aumento delle pressioni sul lavoro potrebbero condurre ad un aumento delle patologie mentali negli anni a venire.”

E i dati dell’OCSE parlano chiaro. In tutti i paesi la percentuale di lavoratori che soffrono di malattie mentali è aumentata negli ultimi 5 anni. La crisi e la deregolamentazione del mercato del lavoro sembrano essere all’origine di questa situazione. Il rapporto dell’OCSE ribadisce come “la perdita del lavoro ha conseguenze sulla salute mentale molto più gravi di qualsiasi altro evento della vita, come ad esempio un incidente o la perdita del coniuge”. A questo si aggiunge il fatto che l’insicurezza e la precarietà rendono fragili anche chi il lavoro ce l’ha, ma ha paura di perderlo. Sempre dal rapporto dell’OCSE si legge come “la recessione può essere molto stressante anche per i salariati che conservano il loro posto di lavoro”, ma si sentono costantemente minacciati. Il rischio di perdere il lavoro è infatti aumentato per tutti. Nel 2005 i salariati che vivevano un senso di insicurezza erano complessivamente il 14% nel 2010 sono il 17%, tra i lavoratori temporanei questa tendenza è ancora più evidente si è passati infatti dal 21% nel 2005 al 40% nel 2010. Lo studio ribadisce come siano proprio i lavoratori temporanei a essere maggiormente toccati dalle malattie mentali.

Infine l’OCSE ribadisce come la tensione al lavoro sia aumentata fortemente in tutti i paesi. In Inghilterra per esempio nel 2005 il 25% dei salariati si considerava sotto pressione al lavoro, nel 2010 questa situazione è sentita dal 40% dei lavoratori, in Francia si è passati dal 20% al 30% nello stesso periodo e in Spagna dal 29% al 41%.

Questi dati trovano conferma in altri studi condotti a livello internazionale e europeo. In particolare i primi risultati della Quinta inchiesta europea sulle condizioni di lavoro svolta dalla Comunità europea sottolineano come “il lavoro si sia intensificato nella maggior parte dei paesi europei nel corso degli ultimi 20 anni”. Infatti oltre il 60% dei lavoratori dichiarano di lavorare con ritmi elevati per almeno un quarto del proprio tempo di lavoro. Tra il 2000 e il 2010 la percentuale di salariati che sostengono di dover rispettare norme precise di qualità nell’esecuzione del proprio lavoro è passata da 67% a 74%. Fondamentalmente possiamo affermare che le trasformazioni che hanno toccato il mercato del lavoro in questi ultimi tre decenni sono state accompagnate da un’ intensificazione dei ritmi di lavoro. Come sostiene anche Serge Volkoff si tratta di un movimento generale che si caratterizza per combinare gli obblighi propri del lavoro industriale (norme di produzione, tempi di consegna stretti, parcellizzazione del lavoro), con quelli caratteristici del settore terziario (risposte urgenti alle domande dei clienti, contatto diretto con questi ultimi, ecc..) Tutto questo in un mix infernale che non può che nuocere alla salute dei lavoratori e delle lavoratrici.

Anche in Svizzera la situazione assume caratteri preoccupanti. Recentemente, infatti, uno studio della Segreteria di stato dell’economia (SECO) ha evidenziato un aumento negli ultimi 10 anni delle persone che percepiscono “spesso” e “molto spesso” situazioni di stress legate al lavoro. Rispetto al 2000 il 30% in più delle persone attive si sente stressato in maniera cronica, ovvero in maniera prolungata. La quota delle persone che non percepisce “mai” o “qualche volta” lo stress ha fatto registrare un calo dal 17.4% al 12.2%. Dallo studio non emergono differenze nella percezione dello stress a seconda del ramo economico, della categoria professionale, dello status socioeconomico o del sesso.
Tra i fattori che influenzano in maniera particolarmente significativa la percezione dello stress troviamo i lavori da svolgere durante il tempo libero, giornate lavorative di più di 10 ore (da 1-2 volte alla settimana fino a ogni giorno), istruzioni imprecise e il fatto di dover dimostrare sentimenti che non corrispondono a quelli reali. La quota di chi si sente stressato è quasi doppia (66%) tra le persone che devono lavorare con scadenze ravvicinate rispetto alla quota delle persone (34%) per le quali la mancanza di tempo è un fattore meno opprimente.
In generale le agenzie nazionali e internazionali che producono questi dati si preoccupano principalmente dei costi generati da queste patologie: aumento dell’assenteismo, aumento delle domande di invalidità e aumento delle spese sanitarie e sociali.
Secondo lo studio dell’OCSE, per esempio, i costi dei problemi di salute mentali legati al lavoro rappresentano circa il 3-4% del prodotto interno lordo nei paesi dell’Unione europea.

A noi preoccupa però soprattutto la dimensione umana, o forse sarebbe meglio dire dis-umana, che si cela dietro queste cifre. La crisi, la precarietà e la deregolamentazione del mercato del lavoro generano una sofferenza infinita in chi non ha nessuna responsabilità nelle scelte politiche e economiche ed è invece costretto a pagarne le conseguenze. E’ ora di cominciare a richiedere che siano i veri responsabili della crisi a pagarne il conto.