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In questi giorni, mentre nel sito Havanatimes stanno uscendo frammenti dello stimolante (e di certo imprescindibile) libro di Sam Farber sulla Rivoluzione cubana, tra diversi amici – residenti nell’Isola e della diaspora – abbiamo scambiato le nostre idee sull’andamento delle riforme a Cuba. Abbiamo discusso della/e posizione/i che dovrebbe tenere di fronte a queste chiunque si dichiari di sinistra/e e al tempo stesso si differenzi dal socialismo di Stato che vige nell’Isola e dall’impostazione neoliberista. Questi “appunti” nascono da questo scambio.

 

In questo dialogo abbiamo notato come le visioni parziali o polarizzate non permettano di cogliere la sostanza dei cambiamenti in corso. Alcuni analisti presentano le riforme come pura e semplice continuità, riverniciata, con il modello politico che ha guidato nel mezzo secolo trascorso la vita dei cubani. Altri, le intendono come una trasformazione trascendentale, una sorta di Rivoluzione nella Rivoluzione, in cui “leader e masse” procedono in perfetta sintonia di velocità, orizzonti e interessi. Gli uni ignorano, pur sostenendo l’idea di equità, i gravi problemi del modello tuttora vigente, reso insostenibile – senza sussidio esterno – dalle ben note modalità di certe politiche sociali; gli altri fanno propri – con ingenuo entusiasmo – i nuovi venti di cambiamento, ignorando che stiamo assistendo alla riformulazione dell’egemonia statale, senza le corrispettive estensioni di diritti e partecipazione dei cittadini.

Quel che accade dal 2008, a giudizio di chi scrive, è un lento e incompleto cambiamento del classico modello di socialismo di Stato in un altro più accostabile alle esperienze asiatiche. In quest’ultimo il mercato amplia la propria presenza senza che ciò significhi un drastico ridimensionamento della capacità dello Stato (e della burocrazia come casta che lo controlla) di imporre la sua agenda in ambiti cruciali della sfera economica (quali la grande industria, il trasporto e le comunicazioni), come anche in altri connessi all’informazione, all’organizzazione e all’ordine pubblici, dove la sua presenza – non così la sua efficacia – è pressoché monopolistica. Nelle riforme in corso non c’è in discussione il tipo di sistema politico costruito durante il mezzo secolo trascorso, dal momento che assistiamo a una sorta di liberalizzazione economica (con corrispettivo ampliamento di determinati spazi d’azione individuale ancorati alla sfera economica) ma non a una trasformazione democratica rilevante e istituzionalizzata, che offra una prospettiva pluralistica della vita e dei protagonisti politici, che deroghi – progressivamente e consistentemente – all’ordine socio-politico autoritario vigente nel paese.

Il visibile (o prevedibile) ampliamento di spazi di mercato – per rendere più dinamica la produzione e la fornitura di beni e servizi della gente di fronte al monopolio asfissiante e inefficiente dello Stato – è positivo, sia per la società sia per lo stesso Stato, visto che questo potrebbe concentrarsi sulle questioni realmente strategiche per lo sviluppo nazionale e fare meglio le cose. In questo senso, l’espansione di un settore di lavoro in proprio, della piccola e media impresa privata (che come sappiamo, non sono la stessa cosa del lavoro in proprio, a parte il fatto che in documenti e discorsi ufficiali entrambe le forme ci vengono presentate messe insieme e indistinte) e in particolare della forma cooperativa rappresentano passi importanti, che possono legarsi alle misure prese – o prevedibili a partire dalla strategia riformista in corso. Misure del genere porterebbero con sé una sorta di “cittadinanza proprietaria” – come condizione, questa, che allude al possesso formale ed effettivo di attivi economici ma anche di beni ad uso personale e familiare – cosa che credo ancorerebbe maggiormente la gente alla propria terra e la impegnerebbe a battersi per un futuro migliore entro i confini nazionali. Tutto questo, è chiaro, se lo Stato collabora in forma attiva, senza deprimerne ancora una volta – come è accaduto negli anni Novanta – energie ed iniziative.

Che il governo di Raúl Castro voglia migliorare la condizioni della gente, che desideri che si consumi di più e meglio e che si eliminino alcune assurde restrizione è indubbiamente encomiabile, allevierebbe la sorte della popolazione cubana. Tuttavia, questo non significa supporre (come fanno alcuni sostenitori della riforma) che i cambiamenti in corso estendano il repertorio di libertà e diritti attivi e che, soprattutto, consentano di trasformare in realtà lo slogan di Potere Popolare, che è la sostanza di un inesistente socialismo democratico e partecipativo. Significa che l’idea soggiacente alla riforma è che un paese con gente materialmente soddisfatta sia più governabile.

L’estensione della democrazia non sembra delinearsi all’orizzonte delle attuali riforme, tranne la modesta eccezione di un limite dei mandati, figlia del buon senso e della conoscenza della biologia. E quando, da un punto di vista di sinistra, puntiamo a un ampliamento democratico non ci riferiamo alla democrazia formale e minimalista, che ha accompagnato l’impianto neoliberista nella regione. Possiamo reinterpretare la democrazia come l’auspicabile allargamento dell’incidenza e della cogestione della società organizzata (e dei cittadini come individui portatori di doveri e diritti) che affianca uno Stato del benessere, in difesa e al fine della promozione del pubblico e di tutti i diritti della gente. Una democrazia che rigetta le “soluzioni” mercificanti e autoritarie che si offrono – a mo’ di canti di sirena – ai problemi dello sviluppo e dell’ordine sociale nelle condizioni della periferia terzomondista.

Qualsiasi strategia di sinistra, di fronte al processo di riforme nella Cuba contemporanea, deve insistere sulla difesa delle cosiddette “conquiste della Rivoluzione” – che sono cosa diversa dal frutto del lavoro e del sacrificio del popolo a dispetto delle porcherie e degli arbitri burocratici – nella forma di bisogni concreti di istruzione, sanità e assistenza pubbliche, universali e di qualità. Che ogni bambino – sia di Miramar o di Palma Soriano – abbia garantiti un buon insegnante e condizioni materiali per istruirsi, come ha avuto la mia generazione, senza che la politica educativa dipenda da “Piani di emergenza” che mancano di una buona alimentazione alle spalle o da insensibili condizionamenti di bilancio da parte del Fondo Monetario Internazionale. Che sia garantito per le donne il diritto di decidere sul proprio corpo, senza vedersi criminalizzata per la sua decisione ad opera di poteri laici o ecclesiastici. Che chi opera in campo sanitario abbia un reddito decoroso, senza avere la tentazione di emigrare in paesi del Nord, di arruolarsi in Missioni Internazionali o di vendere, illegalmente, i propri servizi ai connazionali, come strada per ottenere risorse che gli consentano di acquistare mezzi di sostentamento e beni di consumo. E ove sparisca, per decreto o dissanguamento, la Libreta [la tessera per procurarsi il minimo vitale] – questo simbolo della “Povertà pianificata” – , avvenga soltanto perché i lavoratori possano veder trasformarsi in realtà la massima socialista che recita «da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo il suo lavoro».

Al tempo stesso, noi socialisti dobbiamo accompagnare le attuali riforme con altre proposte operative e concrete di politica di trasparenza, di rendiconti e di partecipazione della gente nel prendere le decisioni a tutti i livelli e nella costituzione di soggetti economici e politici – comunitari, collaborativi, associativi – alternativi sia all’ordine vigente sia alle tentazioni neoliberiste. Per rendere concrete e sostenibili iniziative del genere occorrerà indubbiamente non solo attingere al nostro patrimonio ma tener conto – senza che questo significhi diluire le cose essenziali – delle migliori proposte del pensiero democratico-liberale, del socialismo democratico, del cristianesimo sociale e dei movimenti popolari, per limitarsi ad alcune delle correnti che pullulano, attive, per la regione e per il mondo. E occorrerà anche dialogare, con rispetto reciproco e senza esclusioni né mimetismi, con i loro esponenti nell’isola, poiché solo la comunicazione e la solidarietà tra i “senza potere” consentirà la comprensione degli orizzonti reali, delle similitudini e differenze tra le nostre agende, impedendone la manipolazione ad opera di tutti i governi e di tutti i poteri di fatto (imprenditoriali, mediatici, religiosi) coinvolti nella “questione cubana”.

Nello stesso tempo, la sinistra cubana “del XXI Secolo” dovrà assumere la difesa dei tanti perdenti che le riforme comporteranno, e che si aggiungeranno alle migliaia di lavoratori e località del paese già impoveritisi negli ultimi due decenni. Ultima cosa, ma non per importanza: è ineludibile inserire nelle nostre discussioni ed azioni problematiche poco contemplate dal nostro retaggio ideologico e organizzativo, ad esempio quella dei Diritti Umani (che non si possono affrontare di sghimbescio, a dispetto della loro universalità e integralità) e l’espandersi di specifiche identità – di genere, razziali, socio-ambientali, contro-culturali – che non trovano posto nel modello di socialismo statalista e neanche nelle derive verso prevedibili forme di mercantilismo autoritario e inserimenti subordinati (da tipica repubblica bananiera) che ci riserva il mercato globale.

Questa non è sicuramente un’agenda che soddisfi capi, messia e mercanti, ma può servire da bussola per guidare qualcosa che sia degna di chiamarsi sinistra verso cammini migliori, con la prua rivolta al futuro della nazione.

 

* l’articolo è apparso sul sito http://cubaencuentro.com lo scorso 16 dicembre 2011. La traduzione in italiano è stata curata da sito di Antonio Moscato (http://antoniomoscato.altervista.org/)

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