Oggi si comprende meglio quel che bisognerebbe fare per sbloccare la situazione: monetizzare i deficit pubblici. Questo significa in pratica che la Banca Centrale Europea, o le banche centrali di ogni paese, devono poter acquistare i titoli del debito emessi dagli stati per finanziare il deficit pubblico. Infatti è il solo mezzo per gli Stati che permetterebbe il ricorso ai mercati finanziari che chiedono loro tassi di interesse fantasiosi.
L’obiezione è nota: non è possibile perché i trattati in vigore lo proibiscono. Bisognerebbe piuttosto “rassicurare” i mercati mostrando loro la volontà di applicare un’austerità forsennata. Ma questa strada altro non è che un vicolo cieco, come mostra l’esempio greco. Da almeno due anni, i governi che si sono succeduti mettono in atto politiche di austerità distruttrici e inefficaci. All’inizio della crisi, il debito greco rappresentava 120% del PIL. Oggi è salito al 160%. Se davvero l’obiettivo era di far diminuire questo rapporto, è evidente che non poteva venir raggiunto con misure che hanno diminuito le entrate fiscali più in fretta di quanto non abbiano tagliato la spesa.
La BCE rifiuta di finanziare gli Stati ma, lo scorso dicembre, ha messo a disposizione delle banche 489 miliardi di euro sotto forma di prestiti a tre anni a un tasso d’interesse dell’1%, cioè a un tasso reale negativo tenuto conto dell’inflazione. Con queste liquidità, la banche potranno finanziare più facilmente i deficit pubblici, ma esigendo tassi di interesse ben più alti, che vanno dal 3 al 6% per la maggior parte dei paesi. Questo meccanismo funziona peraltro dall’inizio della crisi e illustra l’assurdità della situazione. È chiaro che ogni debito acquisito in queste condizioni è illegittimo, poiché la BCE potrebbe prestare direttamente agli stati, come fa la banca centrale negli Stati Uniti o quella britannica. La discussione tecnica sul modo di raggiungere questo risultato pur facendo finta di rispettare il Trattato è in fondo secondaria, e la vera questione è un’altra: perché una simile ostinazione a proseguire una politica manifestamente catastrofica?
La risposta è complessa: c’è la sottomissione dei governi alla finanza e il rifiuto della minima rottura. Ma c’è anche una volontà politica sempre più ostentata di approfittare della crisi per somministrare una terapia di schock e di realizzare le “riforme” che diffuse resistenze sociali avevano impedito di portare a totale compimento. È poco chiaro, per esempio, in che modo una maggior flessibilità del mercato del lavoro in Spagna, o la diminuzione del salario minimo che la “troika” ha appena richiesto alla Grecia, potrebbero contribuire a riassorbire i deficit degli Stati. La finanza impone la difesa dei propri interessi ai governi, quando non vi piazza direttamente i suoi incaricati d’affari. Le multinazionali, per parte loro, fanno un calcolo pericoloso: quello che perderanno con la recessione in Europa, lo ricupererebbero sugli altri mercati grazie a un aumento di competitività.
Di fronte a questa fuga in avanti, l’idea che l’uscita dall’euro potrebbe permettere di ricuperare la sovranità perduta è un’illusione. Ritornare alla vecchia moneta – il franco o la dracma – non permetterebbe affatto di allentare la stretta dei mercati finanziari. Al contrario, il debito verso dei non-residenti verrebbe aumentato in proporzione della svalutazione, e la “nuova” moneta sarebbe esposta, senza protezione, alla speculazione. Ancora una volta, la sola misura immediata, che occorre prendere unilateralmente pur proponendone la sua estensione, è quella di finanziare il debito in altro modo che attraverso le emissioni sui mercati finanziari. Essa non risolve tutto. Due misure più radicali sono necessarie: innanzitutto la socializzazione delle banche, poiché è il solo mezzo di epurare una volta per tutte l’accumulazione dei debiti mescolati, che i cittadini non hanno alcuna ragione di addossarsi. Un audit cittadino deve in seguito identificare il debito illegittimo e definire le modalità del suo annullamento, combinato con una riforma che recuperi i regali fiscali accumulati durante lunghi anni.
La prospettiva generale deve essere quella di una rifondazione della costruzione europea. Ciò presuppone di rinunciare alla “preferenza per la finanza” per dare all’Europa gli strumenti della sua coesione, attraverso l’allargamento del budget europeo, l’armonizzazione (verso l’alto) della fiscalità sul capitale e l’attuazione di investimenti socialmente utili ed ecologicamente sostenibili.
* articolo apparso sulla rivista L’école émancipée. La traduzione in italiano è stata curata dalla redazione di Solidarietà