Recentemente l’OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) ha pubblicato un rapporto sull’integrazione degli stranieri in Svizzera. In generale i media hanno riportato la notizia mettendo l’accento essenzialmente sugli aspetti positivi e sottolineando che in nostro paese ha una politica di integrazione particolarmente favorevole.
Integrazione che passa essenzialmente dall’inserimento nel mercato del lavoro. Infatti, secondo lo studio, il tasso di occupazione degli immigrati in Svizzera è il più elevato di tutti i Paesi dell’OCSE. Questo buon risultato è da ricondurre da una parte alle condizioni del mercato del lavoro svizzero e dall’altra soprattutto al fatto che la maggior parte degli immigrati (60%) proviene da paesi OCSE ad alto reddito e più della metà da paesi limitrofi. Come a dire che il mercato del lavoro in Svizzera integra molto bene chi di fatto è già integrato, o comunque emigra in condizioni particolarmente favorevoli.
Ma a ben guardare il rapporto OCSE dice anche altre cose che generalmente i media nostrani hanno dimenticato di riportare.
In particolare si osserva che una buona parte dei lavoratori immigrati della zona OCSE occupano posizioni per le quali sono comunque troppo formati. Questi lavoratori quindi lavorano si, ma in condizioni inferiori alle loro possibilità, conoscenze e aspettative. L’OCSE sottolinea quindi come ci sia un problema di riconoscimento dei diplomi e delle capacità dei lavoratori immigrati.
In generale quindi la valutazione positiva sull’integrazione degli stranieri si basa su criteri di qualità (numero di immigrati che lavorano) e non di qualità (tipo di lavoro svolto, condizioni di impiego e di salario).
La questione diventa ancor più rilevante per le categorie di immigrati più sfavorite. In particolare l’OCSE sottolinea come l’integrazione nel mercato del lavoro sia più difficile per le donne immigrate, soprattutto con figli piccoli, e per i rifugiati di nuova data. Più in dettaglio lo studio sottolinea come la Svizzera, a differenza di altri paesi, non disponga di programma di integrazione specifico per i rifugiati. Inoltre l’OCSE critica la politica di naturalizzazioni che rende l’ottenimento del passaporto rossocrociato molto difficile, una procedura decisamente più lenta e lunga rispetto a quelle degli altri paesi membri dell’OCSE. L’organizzazione internazionale riconosce come l’ottenimento della cittadinanza resta uno strumento molto importante per incoraggiare l’integrazione nel mercato del lavoro.
Infine si osserva come sia ancora presente una forte selezione sociale: i figli di immigrati poco istruiti e con lavoro poco qualificato, tendono a loro volta a ottenere risultati scolastici meno soddisfacenti e faticano quindi a trovare una collocazione migliore nel mercato del lavoro.
Un ultimo elemento riguarda la politica discriminatoria nei confronti della popolazione straniera. Dal rapporto emerge che i figli di immigrati, in particolare provenienti dai paesi dell’ex Yugoslavia, devono candidarsi fino a cinque volte in più degli indigeni prima di essere chiamati a un colloquio di lavoro.
Il quadro che emerge è quindi decisamente meno roseo di quello dipinto dai mass media. Gli immigrati che riescono a integrarsi, a volte comunque rinunciando alle loro competenze e qualifiche, sono fondamentalmente quelli che sono già integrati. Per gli altri l’accesso al mercato del lavoro rimane difficile e costellato da condizioni di lavoro precarie, sottopagate e influenzate da pesanti discriminazioni che sono funzionali ad un loro migliore sfruttamento.