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Prima di tutto, i fatti: Repsol non è la Spagna, ma una multinazionale del petrolio con capitali spagnoli minoritari, dato che la maggioranza è nella mani di capitalisti di altri paesi che – con la partecipazione della messicana PEMEX – posseggono più del 51% delle azioni. Inoltre è così poco spagnola che evade le imposte in Spagna ed è registrata in paradisi fiscali.

Ma i latrati del governo di Madrid (e dell’Unione Europea) così come la reazione di tutti i capitalisti, dimostrano che i governi si identificano con i monopoli e il capitale finanziario e non tollerano misure legali che considerano “chaviste”. [Una conferma dall’Italia: Monti si è pronunciato subito contro “l’aggressività” dell’Argentina e ha minacciato ritorsioni. NdT]
Questi schiamazzi sono un riflesso preventivo. In effetti tutte le imprese (di servizi o bancarie) con maggioranza di capitali spagnoli in Argentina non solo ottengono maggiori profitti delle loro case madri iberiche, ma li ottengono perché depredano il paese senza investirvi nulla, e non rinnovano gli impianti da decenni, cioè da quando il peronismo menemista privatizzò tutte le imprese di interesse nazionale vendendole per pochissimo. L’Argentina ha già recuperato le Aerolineas Argentinas, che erano state distrutte da Iberia e dal gruppo Marsans, e ora richiede alle imprese telefoniche e di elettricità quel servizio efficiente che queste rifiutano di fornire, perché preferiscono inviare i loro profitti in Spagna piuttosto che reinvestirli. È probabile quindi che vedendo quel che accade in YPF, comincino a preoccuparsi.
Il governo di Cristina Fernández non è stato punto da qualche tafano nazionalista: la stessa presidente, quando negli anni Novanta era senatrice, aveva presentato un progetto di legge per privatizzare il petrolio. Lei e suo marito, che era governatore della provincia petrolifera di Santa Cruz, approvarono la politica privatizzatrice di Menem, l’entrata di Repsol in YPF, e la pericolosa frammentazione del controllo nazionale del petrolio, che passò alle province dove si estraeva. Inoltre, per molti anni il kirchnerismo non ha detto niente sul carattere predatorio dell’impresa petrolifera privata, anzi lo rafforzò permettendo che un gruppo di suoi amici capitalisti, il gruppo Petersen (della famiglia Eskenazy), comprasse con credito pubblico – senza impiegare un solo peso suo – un importante pacchetto di azioni. D’altra parte fino all’anno scorso Cristina Fernández de Kirchner andava a braccetto con Repsol.
La presidente che regala le risorse andine alla predatoria grande industria mineraria canadese-statunitense, e permette a quattro monopoli multinazionali della soja di mettere a rischio suolo e acqua, minacciando le coltivazioni alimentari, e che concede una base nel Chaco agli Stati Uniti, non è esattamente un modello di nazionalismo. Se ora comincia a vestirsi di bianco e celeste, e indossa il berretto frigio, sia nel caso delle Malvine che in quello di YPF, è per motivi molto concreti. Cioè l’aggravamento degli effetti della crisi economica mondiale sulla fragile economia dipendente argentina, e la necessità di rispondere alla crescente agitazione sociale (l’anno scorso ci sono state più mobilitazioni e scioperi che nel 2001).
Sia chiaro: le Malvine sono argentine, e rivendicarle è legittimo. Quello che è illegittimo è che una causa giusta sia utilizzata per nascondere e mettere in secondo piano l’impossibilità di mantenere i sussidi ai servizi essenziali e al paniere dei consumi di base, di risolvere il disastro del sistema ferroviario o di far accettare il tentativo di congelare virtualmente i salari proponendo nelle discussioni paritetiche una soglia al di sotto dell’inflazione reale.
YPF, naturalmente, deve essere uno strumento per lo sviluppo nazionale, non avrebbe mai dovuto essere privatizzata e tanto meno ceduta a Repsol, come avvenne con i governi peronisti di Menem e di Néstor e Cristina Kirchner. Se ora questa espropria le azioni della Repsol e costruisce un’impresa privata parastatale con il controllo dello Stato, è perché la fattura dell’importazione energetica era arrivata ad essere quasi uguale al deficit argentino nella bilancia commerciale e continuava a crescere, dato che Repsol non esplorava né sfruttava nuovi giacimenti, né reinvestiva nel paese i suoi enormi profitti. Repsol continua ad essere un’impresa mista, ora con una maggioranza di capitale statale, ma sempre con una partecipazione importante di capitalisti privati. Non è stata trasformata in un’impresa statale ne deprivatizzata, come fanno credere invece i media spagnoli e argentini.
L’azione, anche se tardiva, parziale e insufficiente, è però necessaria, e deve essere appoggiata. Senza dubbio, perché YPF funzioni bene bisogna avere i capitali necessari per esplorare e sfruttare nuovi giacimenti di gas e di petrolio, bisogna avere i tecnici e le tecniche che potenzino la produzione e la raffinazione, perché i relativi miglioramenti economici negli ultimi anni hanno fatto crescere il consumo privato e i bisogni energetici.
L’autosufficienza energetica non si raggiungerà in un giorno. Inolte l’Argentina ha riserve, ma non è un vero paese petrolifero, e le sue necessità cresceranno in futuro.
Sono altre le soluzioni. In primo luogo Repsol ha causato danni per azioni o omissioni. Non c’è niente da pagarle, né i 10 miliardi di dollari che pretende, né i 6 che il governo sembra disposto a darle. Questo danaro deve essere indirizzato verso l’esplorazione e lo sfruttamento di nuovi giacimenti, ricorrendo alle conoscenze e alle capacità di tutti i lavoratori del petrolio cacciati dopo la privatizzazione di YPF.
Al tempo stesso l’Argentina deve puntare a un’integrazione energetica con gli altri paesi latinoamericani, compensando con la cooperazione industriale le differenze che possano esistere nei bilanci di importazione/esportazione di combustibili, stabilendo un controllo dei cambi e il monopolio del commercio estero per non lasciarlo in mano alle grandi imprese straniere, e per evitare la fuga di capitali.
L’uso di argomenti patriottardi è da sempre una risorsa delle canaglie per ingannare gli imbecilli. i servi del grande capitale in Spagna li usano per nascondere la loro crisi e la disoccupazione. In Argentina, al contrario, il consenso necessario per fronteggiare e vanificare le contromisure imperialiste si deve ottenere dicendo la verità, e con azioni audaci.

* articolo apparso su la La Jornada Quincenal il 17 aprile 2012. La traduzione in italiano è stata curata da Antonio Moscato