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La grande manifestazione operaia organizzata dall’azienda di Riva deve costringere a riflettere seriamente sul rapporto tra risanamento ambientale e diritto al posto di lavoro. Un’alleanza possibile se rinasce una coscienza sindacale adeguata.

 

Quello che è accaduto venerdì 30 marzo, a Taranto, in coincidenza con l’incidente probatorio contro la proprietà e alcuni massimi dirigenti Ilva, è quanto di più preoccupante potesse accadere. Non ci disperderemo a stabilire il numero di partecipanti (le cronache hanno parlato di 7000 operai in piazza, ndr.) la massiccia manifestazione con impiegati, operai e anche dirigenti, indetta, di fatto, dal padrone dell’Ilva, Riva (per contestare i dati di un’indagine epidemiologica), ha messo a nudo l’inconsistenza sindacale, al di la del numero degli iscritti alle singole organizzazioni e, contemporaneamente, ha messo in chiaro quale presa Riva riesca ad avere nella manipolazione degli operai.

Utilizzando, è vero, l’arma potentissima dell’occupazione ma allo stesso tempo approfittando dello scarso “fascino” che le organizzazioni sindacali hanno fra i lavoratori. La sfilata di venerdì è stata in realtà il fenomeno più evidente del controllo esercitato da capi, capetti, dirigenti e fiduciari dell’impresi sulla stragrande maggioranza degli operai. Ma quello che accade oggi viene da lontano. Nel 1995 Riva riceve in dotazione uno degli stabilimenti più grandi d’Europa e si pone subito l’obiettivo di cambiare la “vecchia” classe operaia (all’incirca nel 1997), utilizzando i finanziamenti europei per ristrutturare i processi produttivi in siderurgia. Grandi flussi di denaro vengono indirizzati verso i maggiori Paesi produttori di acciaio, che furono utilizzati per incentivare le uscite dei lavoratori verso il pensionamento.

Contemporaneamente iniziano le assunzioni di giovani con i famigerati “Corsi di formazione/lavoro”. Allora, la linea delle tre federazioni Fim, Fiom e Uilm nei confronti dei giovani operai, inesperti e del tutto disarmati fu di rinuncia. Ai delegati fu detto: “Lasciate stare i giovani operai, non vogliamo responsabilità di eventuali non assunzioni a tempo indeterminato o di un mancato rinnovo di contratto per altri due anni”. E così furono lasciati in balia dei dirigenti e dei capi, i quali utilizzarono il loro potere, ovviamente, contro le organizzazioni sindacali. Non è un caso che fra pensionamenti e mancate nuove iscrizioni il numero dei sindacalizzati sia crollato verticalmente. Alla rinuncia ad assumersi le responsabilità di essere presenti è corrisposta la sfiducia degli operai verso le organizzazioni sindacali.

A pesare ci sono state poi le divisioni su quasi tutte le questioni sindacali. Come quando furono licenziati i due delegati Fiom e un gruppo di operai dell’acciaieria – che avevano bloccato una siviera che rischiava di esplodere per infiltrazioni di acqua – e Fim e Uilm non mossero un dito. Non è bastata una parziale ripresa delle iscrizioni per ridare credibilità ai sindacati. Come insegna la vicenda storica della Fiat, non sono gli iscritti ai sindacati, di per sé, a determinare la combattività della classe operaia. Nella più grande industria italiana gli iscritti ai sindacati non hanno mai superato il 50 per cento della forza lavoro. All’Italsider gli iscritti sono stati intorno al 70- 80 per cento. Poi con Riva c’è stato il crollo.

Se partiamo da questo primo, parziale, approfondimento della vicenda della giovane classe operaia dell’Ilva, abbiamo un’immagine meno sensazionalistica di quello che è accaduto. Non possiamo, però, dimenticare che a spingere verso Riva i lavoratori hanno contribuito anche settori dell’ambientalismo nostrano, che hanno avuto obiettivi (sicuramente legittimi) e atteggiamenti discutibili. Imprecare contro i “venduti”, gli “stupidi”, o gli operai che “non capiscono”, è un atteggiamento sbagliato. L’arroganza non paga, al massimo può favorire coloro che si vogliono combattere. Come spiegare agli operai, in assemblee ambientaliste che “non comprendono il danno che fanno a se e agli altri cittadini”.

La posizione di settori ambientalisti di chiudere lo stabilimento ha spinto definitivamente nelle braccia di Riva i lavoratori. I quali, costretti a scegliere fra gli ambientalisti e il padrone, sceglieranno quest’ultimo per il motivo semplice che gli sembrerà il più adatto a difendere il posto di lavoro. In realtà, quando se ne presenterà l’occasione, Riva li licenzierà lo stesso, o per riduzione produttiva o per difficoltà economiche o per un altro motivo qualsiasi. E di questo occorrerà prendere coscienza.

In ogni caso, sulle questioni ambientali si può individuare un obiettivo concreto per migliorare l’ambiente interno allo stabilimento e, di conseguenza, quello esterno. Non bastano più aggiustamenti o pannicelli caldi. L’ulcera non si cura con l’aspirina, si deve procedere a soluzioni drastiche. Oggi sul mercato dell’impiantistica siderurgica ci sono tecnologie che superano il vecchio modo di fare acciaio, che riducano drasticamente le immissioni inquinanti. Questi impianti denominati “COREX” e “FINEX” sono già operanti in vari Paesi del mondo. Su questi nuovi impianti dobbiamo approfondire le nostre conoscenze per fare in modo che vengano realizzati. Qualcuno potrebbe dire che “Riva non caccerà mai i soldi per realizzarli”. Se si pensa questo, allora dobbiamo anche dire: come si potrà pretendere che Riva cacci i soldi per contribuire alla bonifica del territorio, imponendo la chiusura dell’Ilva? Se in questa battaglia sapremo coinvolgere i lavoratori, senza i quali non si va da nessuna parte, potremo raggiungere un duplice obiettivo: assicurare il posto di lavoro e contemporaneamente migliorare l’ambiente della nostra città.

 

* Ex operaio Ilva, esponente di Sinistra Critica Taranto – articolo tratto da http://ilmegafonoquotidiano.globalist.it