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Non passa praticamente giorno senza che qualcuno dei maggiori partiti politici denunci, attraverso la stampa, in Parlamento, ecc. la difficile situazione nella quale ci troviamo. Pagamento dei salari in euro, salari a 2’000 franchi o anche meno, condizioni di lavoro inaccettabili, lavoro in nero. Tutte denunce sacrosante, evidentemente.

Quando però si tratta di passare dalla denuncia alle proposte concrete per combattere il dumping salariale e sociale che stiamo vivendo, ecco arrivare il vuoto. Tipico di questo modo di procedere l’atteggiamento avuto dai maggiori partiti politici in occasione della presentazione, tre anni fa, dell’iniziativa popolare dell’MPS che chiedeva l’introduzione di un salario minimo legale di 4000 franchi per 13 mensilità e sulla base di un orario settimanale di 40 ore. Il Parlamento ha deciso che l’iniziativa dell’MPS non era “ricevibile” e così si è permesso di non sottoporla nemmeno al voto popolare, sostenendo che andavano prese ben altre misure.

Naturalmente stiamo ancora aspettando, tutti quanti, le proposte di tutti i rappresentanti di questi partiti per combattere il dumping salariale e sociale. E aspetteremo ancora a lungo perché costoro, in realtà, difendono gli interessi del padronato, piccolo o grande che esso sia, non certo quelli dei salariati, cioè di coloro che per vivere possono contare solo sul proprio salario.

Adesso la storia potrebbe ripetersi. L’MPS assieme ad altre forze ha lanciato e fatto riuscire un’iniziativa popolare che chiede il raddoppio degli ispettori occupati nei controlli, l’obbligo di annunciare ogni nuovo contratto e la realizzazione di una statistica salariale, la creazione di delegati nelle aziende che abbiano il potere di controllare che non vi siano fenomeni di dumping e possano segnalarli all’ispettorato del lavoro. Questi delegati sarebbero protetti, nella loro azione, contro i licenziamenti abusivi.

Siamo alle prime fasi della discussione, ma già da alcuni partiti (Lega, UDC, PLRT, PPD) si levano forti opposizioni contro questa iniziativa, affermando che “va troppo lontano”.

Loro, invece, continuano a non andare da nessuna parte, a stare fermi, a non far nulla, a non proporre nulla.

Salvo poi, come al solito, ad “indignarsi” pubblicamente di fronte a situazioni estreme: alla cui nascita hanno concorso con il loro atteggiamento.

 

Per un vero diritto alla libera circolazione

 

L’unica misura sulla quale tutti sembrano invece essere d’accordo è una misura che mette in luce il vecchio atteggiamento conservatore, e tendenzialmente xenofobo. Ci riferiamo alle misure di “contenimento” dei lavoratori esteri che vanno dalle demenziali proposte leghiste (“alzare il muro al confine”) a quelle più “fini” dell’UDC (ma che ha un largo seguito tra tutte le forze parlamentari – il governo ticinese vi si è schierato unanimemente a favore) per l’introudzione della cosiddetta clausola di salvaguardia, cioè un contingentamento della manodopera estera.

Naturalmente dimenticando tutti i discorsi fatti (che non erano che aria fritta, appare evidente) sulla libera circolazione quale diritto fondamentale che gli accordi bilaterali avrebbero portato ai lavoratori esteri. Nulla di meno vero in realtà.

Una vera libera circolazione richiede efficaci misure d’accompagnamento, dei veri diritti sociali e sindacali.

La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 afferma che qualsiasi persona “ha diritto alla libertà di movimento e di residenza” (art. 13). Questo diritto deve essere difeso. Affinché possa concretizzarsi a favore dei salariati, esso deve essere indissolubilmente legato al “diritto al lavoro a giuste e soddisfacenti condizioni, al diritto alla protezione contro la disoccupazione, al diritto alla sicurezza sociale” (art. 22, 23).

Nelle condizioni nelle quali questa “libera circolazione” avviene oggi in Svizzera ed in Ticino essa non è altro che “libero sfruttamento” da parte dei datori di lavoro che ormai devono rispettare solo poche regole contrattuali in materia salariale e di condizioni di lavoro che esistono in settori molto limitati.

La “libera circolazione” in salsa elvetica (e in questo non è molto differente da quella dell’Unione Europea) si è rivelata  in realtà essere una liberalizzazione del mercato del lavoro.

Attraverso la stipulazione degli accordi bilaterali, ed in particolare quello relativo alla libera circolazione, si è di fatto       proceduto ad una ulteriore deregolamentazione e liberalizzazione del mercato del lavoro, già storicamente poco o per nulla sottoposto a regolamentazioni. Sia nei settori sottoposti a contratti collettivi di lavoro (una netta minoranza) sia nei settori dove non vi è alcuna contrattazione collettiva, si sono aboliti quei meccanismi di controllo minimi, al momento dell’assegnazione dei permessi di lavoro,  che permettevano di esercitare un certo filtro e di tenere sotto controllo, seppur in misura non soddisfacente, l’evoluzione salariale, limitando un certa discesa verso il basso.

 

Le inutili proposte del «senno di poi»

 

A fare una figura un po’ barbina in questo contesto sono tutti coloro che, in nome degli interessi dei salariati, hanno sostenuto l’accordo sulla libera circolazione (in almeno tre votazioni) raccontando e garantendo che le misure di accompagnamento varate ci avrebbero protetto dal dumping salariale.

Una strategia, come abbiamo scritto più volte, assolutamente fallimentare. Che ora si cerca di recuperare formulando    proposte di «nuove» misure di accompagnamento che dovrebbero «completare» e «rafforzare» quelle esistenti.

È il caso dell’Unione Sindacale Svizzera (USS) e del Partito Socialista Svizzero (PSS) che, un giorno si e uno no, ci presentano legislative che «dovrebbero» rafforzare le misure di accompagnamento.

Ora tutto ciò è una pure provocazione, un presa in giro. Costoro sanno benissimo di non avere in mano nulla, ma proprio nulla, per poter imporre l’accoglimento delle loro proposte (tra l’altro in molti casi assolutamente inadeguate anche a rispondere ai problemi che si pongono). Non hanno i rapporti di forza in Parlamento, li hanno ancora meno nel paese.

È evidente che si tratta di pura propaganda che cerca di recuperare il discredito di cui godono di fronte ai salariati per averli invitati a votare «SÌ» ai bilaterali con la garanzia che le misure di accompagnamento li avrebbero protetti dal dumping.

Allora vi sarebbero state le condizioni, vista anche l’incertezza del voto, per ottenere molto di più in materia di misure di accompagnamento; ed una vittoria del «no» avrebbe riaperto il negoziato a favore delle forze progressiste del fronte del «no», non certo della componente reazionaria di questo fronte (UDC, Lega, ecc.).

Ora, l’alternativa è una lunga e paziente azione di resistenza sui luoghi di lavoro e una campagna permanente contro il dumping salariale.

Tutto il resto, come detto, è solo polvere negli occhi.