È strano il destino che la politica svizzera, compresa quella della sinistra social-liberale, riserva al principio della libera circolazione, un principio pertanto fissato tra quelli che sono i diritti fondamentali dell’uomo e che qualsiasi stato democratico, degno di tal nome, dovrebbe garantire nella forma e, soprattutto, nella sostanza.
Al di là delle formulazioni, più o meno prudenti, al di là delle prese di posizione, più o meno articolate, la verità è che quasi più nessuno oggi difende il principio della libera circolazione, assimilando così un diritto fondamentale che ogni lavoratore, ogni essere umano, dovrebbe poter far valere alla applicazione di questo diritto affidata alla libera azione del mercato così come previsto nel quadro della libera circolazione.
PSS e sindacati corteggiano l’UDC
Come noto il ritorno alla politica dei contingenti (cioè l’adattamento del principio della libera circolazione alle esigenze del padronato svizzero) ha governato la politica dell’immigrazione per decenni, soprattutto nel dopoguerra. Una politica dai contenuti sostanzialmente xenofobi, che ha permesso ai movimenti di destra di sfruttare questo terreno favorevole per costituirsi come corrente politica di primo piano (fino al trionfo, tutt’altro che declinante – non si illuda chi guarda ai soli recenti risultati elettorali, dell’UDC).
Ora il ritorno a questa politica è invocato non solo dall’UDC con la sua iniziativa “contro l’immigrazione di massa”, ma da parte delle organizzazioni sindacali e del PSS , che avevano battuto la grancassa della libera circolazione al momento degli accordi bilaterali.
Il documento del PSS relativo ad una politica migratoria “globale e coerente” (attualmente in consultazione presso le sezioni cantonali) ribadisce tra le righe (ed a volte anche apertamente) questa vecchia impostazione della politica migratoria svizzera, adducendo la presenza eccessiva di lavoratori stranieri (dimoranti o frontalieri) come la causa della progressione del dumping salariale.
Ancora peggio l’OCST che, in un documento presentato nei giorni scorsi, chiede il ritorno puro e semplice (con i dovuti distinguo ben s’intende) ad una politica di contingentamento, in particolare per i cantoni con forte afflusso di lavoratori frontalieri.
Questa linea politica è naturalmente presentata, come detto, con tutte le sfumature del caso e con discorsi di contorno che richiamano le responsabilità dei datori di lavoro, la necessità di potenziare i contratti collettivi di lavoro,ecc. Ma il dato saliente è che si invoca il ritorno ad una politica di contingentamento, raggiungendo in questo modo, sia nella forma che nella sostanza, la politica della destra xenofoba.
Misure che non accompagnano nessuno
Il rapporto SECO sulle misure di accompagnamento presentato la settimana scorsa conferma, timidamente ed indirettamente – vista la fonte ci pare che di più non ci si potesse aspettare, quello che tutti possono vedere e toccare con mano giorno dopo giorno: l’avanzata lenta ed inesorabile del dumping salariale e sociale.
Ora tutti, ma proprio tutti, sono costretti ad ammettere che le misure di accompagnamento (che, ci avevano assicurato – da destra a “sinistra”, ci avrebbero “protetti” contro il dumping salariale e sociale) hanno di fatto fallito. Tutti reclamano un “rafforzamento” delle misure di accompagnamento: ma tutti devono pure constatare che quelle appena proposte dal Consiglio federale – frutto di un paio d’anni di discussione e non ancora andate in porto – sono decisamente insufficienti; al massimo, si aggiunge, rappresentano un “segnale”. D’altronde non si capisce per chi rappresenterebbe un segnale. Sta di fatto che qualsiasi nuovo round di misure di accompagnamento – al di là della loro presunta efficacia se non si vogliono affrontare i nodi di fondo – non vedrebbe la luce prima del 2015, nella migliore delle ipotesi e tendendo conto dei tempi istituzionali della politica svizzera.
Assenza di regole
Abbiamo più volte attirato l’attenzione sul fatto che lo sviluppo di un sistema di controlli indipendente e ancorato ai luoghi di lavoro è decisivo, in particolare nella misura in cui permette di coinvolgere direttamente i lavoratori nella lotta contro il dumping salariale e sociale. A questo proposito va proprio in questa direzione l’iniziativa proposta dall’MPS in Ticino (e fatta propria dal comitato d’azione contro il dumping salariale e sociale in Ticino), attualmente in discussione davanti alla commissione della gestione del Gran Consiglio.
Ma, lo abbiamo detto pure altrettanto spesso, è l’assenza di regole che ha aperto la via al dumping salariale. Non a caso, è stato notato proprio dal recente rapporto del SECO, le infrazioni salariali si constatano, apparentemente potrebbe sembrare un paradosso, più nelle aziende non sottoposte ad un contratto collettivo di lavoro. La cosa, invece, è del tutto logica. Perché nei settori senza contratto collettivo non esistono salari di riferimento la cui applicazione è da controllare. Al limite le infrazioni possono riguardare altri dispositivi retti dal diritto del lavoro (orari di lavoro, supplementi, assicurazioni sociali, ecc.).
Per questo appare necessario mettere al centro l’idea di un salario minimo legale. Una proposta che però non può risolversi attorno all’idea sostenuta nella discutibile iniziativa depositata dall’USS. Un’iniziativa che sia dal punto di vista dei contenuti (22 fr. l’ora, meno di 4’000 franchi) , sia della prospettiva nella quale si inserisce, rischia di fare la fine dell’iniziativa per le 6 settimana di vacanza, che a sua volta ha fatto la stessa fine (pochi anni fa) dell’iniziativa sul tempo di lavoro, che a sua volta ha fatto la stessa fine…Potremmo continuare all’infinito in questa triste storia di sconfitte annunciate.
Una campagna permanente, coerente e di lungo termine
Tra le varie proposte che oggi andrebbero avanzate contro il dumping salariale e sociale vi è quella di un salario minimo legale.
Ma questa battaglia non può avere come obiettivo la campagna a favore dell’iniziativa dell’USS che andrà in votazione tra due o tre anni.
Essa dovrebbe per contro diventare una preoccupazione permanente e coerente che dovrebbe muovere qualsiasi tipo di attività e di azione sindacale tra i salariati.
Il primo punto fondamentale sarebbe quello di definire un salario minimo che potesse, attorno a sé, coagulare settori di salariati diversi, con livelli salariali e garanzie salariali diverse. Fissare questo obiettivo sarebbe un primo passo avanti importante. Fare come ha fatto l’USS, e cioè fissare un salario minimo nazionale sulla base di una pura valutazione statistica e senza una reale discussione con e tra i lavoratori, significa preparare, nel migliore dei modi, l’indifferenza dei salariati verso questa “battaglia”.
Una volta fissato questo obiettivo condiviso si dovrebbe fare in modo che le rivendicazioni, in particolare quelle contrattuali, non fossero contraddittorie con questo obiettivo. Ed è il problema che oggi, persino di fronte ad una rivendicazione come quella dell’USS (22 franchi l’ora pari a circa 4’000 franchi, senza tredicesima), si presenta sempre più spesso. Che senso ha infatti lanciare una iniziativa di questo tipo se poi, nelle trattative contrattuali si accetta, se non addirittura si propone, salari di gran lunga inferiori a questo limite? È il caso,ad esempio, del recente rinnovo del contratto per i lavoratori delle FFS che hanno visto inserire salari di poco superiori ai 3’000 franchi; o ancora i salari contenuti nel contratto per il personale occupato tramite agenzie interinali, o ancora (3’300) la proposta lanciata di recente da Unia Ticino quale salario minimo di riferimento per il settore industriale cantonale.
Infine il tutto , un obiettivo concreto ed una politica propositiva coerente, dovrebbe essere portato da una campagna di mobilitazione permanente che permetta di battersi sia nelle imprese, sia nei contratti collettivi per salari minimi effettivamente in grado di rispondere ai bisogni dei salariati.