Ultimamente è in corso un dibattito tra economisti ortodossi appartenenti alle correnti keynesiane e neoclassiche che può spiegare come gli Stati Uniti e l’Unione europea (UE) affrontano la crisi. Gli uni scommettono su un presunto keynesismo rivolto allo stimolo economico, gli altri sull’austerità. Ma dietro questa discordanza esiste veramente un’opposizione di fondo? Oppure si rivela, in modo confuso, come essi siano due aspetti complementari della stessa politica neoliberale?
Prima di tutto ricordiamo che gli economisti della Scuola austriaca [Carl Menger, Friedrich A. von Hayek o Ludwig von Mises],che come è noto sono ultraliberali, negli ultimi anni segnalano di continuo che le politiche applicate nell’UE sono in realtà estremamente invasive a causa del ruolo della BCE (Banca Centrale Europea), e che questo fatto ha alterato anche i cicli dell’economia privata, impedendo la distruzione creatrice insita, secondo loro, nella crisi. Ritengono infatti che la crisi sia una buona cosa. In sostanza, la loro posizione, estremamente rigida e molto a destra, non si basa solo su un’ottica soggettiva ma anche su alcuni fatti che sono riusciti a sottolineare efficacemente.
Anche se noi ci situiamo molto lontano da loro, non bisogna ignorarli. In ciò che dicono vi è una parte di verità.
Per quanto mi riguarda, affermo che il neoliberalismo reale differisce enormemente da quello descritto dalla Scuola neoclassica o austriaca. La realtà ne conferma una caratteristica sola: la necessità di un aggiustamento salariale e sociale permanente.
Due altri punti non sono confermati dalla realtà: né la politica monetaria restrittiva, né i tagli sulla spesa pubblica. In pratica occorre dire che ciò a cui siamo confrontati è un neoliberalismo di Stato. Non meno Stato e più mercato, ma uno Stato favorevole alla borghesia ed a un mercato lucrativo unilaterale e protetto per le oligarchie dei grandi capitalisti. (…)
In realtà, quando si tratta di definire ciò che si intende per neoliberalismo, non esiste un’opposizione tra un certo keynesismo (quello della sintesi neoclassica, inaugurata da Samuelson [1915-2009], decantato dal celebre Paul Krugman) e la Scuola neoclassica.
Occorre distinguere tra le scuole post-keynesiane e altre scuole di economia radicale, o correnti che fanno capo ad altri come Michal Kaleski [1899-1970] o a Joan Robinson [1903-1983], che hanno altre opinioni. Pur essendo eredi o teorici paralleli di Keynes, e pur riprendendo gli aspetti più sensati del suo modello, adottando una interpretazione dell’economia politica più utile e meno tecnocratica, la loro posizione, seppur più ragionevole, non implica che abbiano sempre ragione (a questo proposito segnalo due articoli apparsi sul sito Sin Permiso, nel numero di questa settimana, uno di Steve Keen [1], che critica la negazione di Krugman del ruolo del sistema bancario e dell’indebitamento, l’altro di Alejandro Nadal [2], che propone di passare oltre il keysianismo e il neoliberalismo a favore del marxismo).
In pratica, l’economia dominante applicata non prende le distanze, se non parzialmente, dal vecchio keynesismo, pur non abbandonandolo e pur adottando nuove ricette che provengono da scuole ancor più conservatrici. Viene a crearsi un ibrido che viene mal studiato dagli analisti contemporanei.
Uno dei dibattiti, avviati recentemente, è la presunta opposizione tra la politica economica di Obama e quella di Bruxelles e dei paesi dell’UE. A mio avviso, occorrerebbe parlare di tendenze di politica economica differenziate più che contrapposte.
E’ vero che la politica monetaria estremamente espansiva degli Stati Uniti (o del Giappone) e gli stimuli fiscali (cioè le forti defiscalizzazioni del capitale, basati su un postulato che si presume utile per liberare risorse a favore dell’investimento privato) non è esattamente la stessa strategia applicata nell’UE; ed il suo risultato non è lo stesso.
Bisogna ricordare però che Obama non è precisamente un keynesiano (e sicuramente non un uomo di sinistra) e che le misure di Bruxelles e dei paesi comunitari non sono così austere. Gli stimuli fiscali e la politica monetaria ultraespanisva [agevolazioni monetarie (espansione monetaria) utilizzati dalla Banca centrale – la FED – per aumentare la massa monetaria, accrescendo gli eccedenti delle riserve bancarie) sono previsti gradualmente, e non qualitativamente più intensi che quelli stabiliti in seno all’UE (come quello, ad esempio, attuato con il secondo intervento di febbraio, per rifinanziare eccezionalmente a tre anni, all’1% di tasso di interesse, per un totale di 529 miliardi di euro].
In secondo luogo, il “keynesismo” di Obama non è concepito per favorire un grande investimento pubblico, aumentando gli introiti fiscali per creare posti di lavoro, come ha potuto fare il presidente Roosevelt a suo tempo, negli anni ’30. Obama è ben lontano da tutto ciò. Al contrario, la sua politica economica è orientata a sostenere le banche private degli Stati Uniti.
In realtà, le politiche europee sono solo un po’ meno ultra-espansive, senza alcun problema, perché nei due spazi economici regna la trappola della liquidità e le politiche monetarie sono efficienti solo in minima parte. Per quanto riguarda le spese pubbliche, non vi è stato alcun freno.
Ne risulta una profonda metamorfosi delle funzioni dello Stato. Da una parte nel modo in cui è stata finanziata la spesa pubblica, perché si è scelto di finanziarla maggiormente con il debito pubblico anziché con le imposte. Dall’altra, perché questi fondi sono stati destinati a salvare le banche e il capitale delle grandi imprese che hanno esercitato il loro potere di lobby e non agli investimenti ed a politiche sociali o dell’impiego socialmente utili.
Ma allora, come si spiega che gli Stati Uniti in questo momento sono in ripresa [leggera crescita], al contrario dell’UE? Le ragioni non dipendono dai parametri esposti qui sopra.
L’uscita dalla recessione degli Stati Uniti (debole comunque) ha più a che vedere con il suo ruolo di economia, avendo a disposizione moneta di riserva internazionale, che gode del maggior sostegno su scala internazionale e che funziona in pratica come una moneta rifugio grazie al ruolo di gendarme della borghesia mondiale, esercitato dagli Stati Uniti. Ed anche grazie al ruolo della Riserva Federale (la Banca Centrale americana) che presta direttamente allo Stato, ciò che in UE è vietato alla Banca Centrale (BCE), in base ai suoi statuti; ed anche con i flussi di eccedenti ottenuti e rientrati da investimenti transnazionali del capitale nordamericano nei paesi emergenti dove investe e dove trova complicità da parte dei governi locali.
L’adeguamento salariale negli Stati Uniti è stato realizzato effettivamente e i tassi di profitto sono stati parzialmente ristabiliti. In Europa si sta cercando di farlo, ma l’operazione non è ancora giunta a termine.
Inoltre, in Europa, occorre fondamentalmente distinguere tra la realtà dei paesi centrali e quella dei paesi periferici del sud e del l’est europeo, perché questi ultimi sulla scena europea sono nella posizione peggiore a causa delle politiche dell’UE e dei governi che le applicano, politiche che impediscono lo sviluppo dei paesi del Sud privilegiando e garantendo i capitali centroeuropei.
In qualche modo, è anche certo che la mancanza di coordinamento propria dell’Europa e la sua mancanza di integrazione reale si rivelano essere un handicap. Vi è integrazione solo per portare avanti politiche recessive o, nel migliore dei casi, politiche inefficaci di fronte alla crisi. Anche perché la crisi è sistemica e solo con un cambiamento politico del modello sarà possibile allontanarci dai problemi che viviamo.
Gli economisti degli Stati Uniti e dell’Europa sono comunque in perdita di credibilità, per non dire in decadenza. Le prospettive oscilleranno tra crescite rampanti e nuove recessioni più profonde che vedranno i politici al potere incapaci di dare risposte. Se non vi saranno cambiamenti politici del modello socioeconomico, l’incognita sarà l’evoluzione dei paesi emergenti e le rispettive posizioni e relazioni che creeranno tra di loro.
Le economie occidentali, inoltre, gravate dell’indebitamento e dalla finanziarizzazione, sono strettamente legate tra di loro. La Cina e la Germania sono creditori in netto. Gli Stati Uniti e il resto dell’Europa sono debitori in netto. Gli Stati Uniti dispongono anche dei CDS [3] e sono a loro volta creditori dell’Europa, fornendo, su larga scala, crediti a buon mercato alla BCE.
Se scoppiasse una serie di default di pagamento di debiti (privati, i più importanti, e pubblici), come quelli inaugurati in Grecia – la debolezza dell’Europa, colpita a morte, trascinerà con sé l’economia nordamericana. Ecco perché gli Stati Uniti hanno messo il FMI ai vertici dell’intervento di accompagnamento alle misure della BCE.
A mio avviso, questa diagnosi è la base per comprendere ciò che succede. Un po’ dappertutto si fanno ragionamenti troppo schematici e si affermano verità poco utili alla comprensione dell’attuale contesto.
* Daniel Albaraccin è economista e sociologo. Collabora, tra l’altro, alla rivista Viento Sur. La traduzione in italiano è stata curata dalla redazione di Solidarietà.
2. http://www.sinpermiso.info/textos/index.php?id=4858 di Alejandro Nadal, membro del Comitato di redazione della rivista Sin permiso
3. Credit Default Swap: un titolo di garanzia contro il rischio di fallimento. Uno strumento di protezione contro il rischio. I CDS sono in realtà uno strumento di speculazione. In effetti, possono essere acquisiti da chiunque senza detenere il titolo assicurato. Si parla allora di CDS naked . Dall’altra parte della transazione, il venditore di protezione può agire come assicuratore contro il fallimento ed incassare i premi assicurativi versati dall’acquirente di CDS, senza aver versato il benché minimo fondo. Avrà l’obbligo di versare al detentore di CDS la somma assicurata e di riunire i fondi necessari – se non li detiene già – solo nell’eventualità di un fallimento del titolo per il quale il cliente è assicurato. Ma, nel frattempo è stato in grado di operare sul mercato del CDS, che passa così di mano in mano come i titoli speculativi, di cui è difficile sapere chi li deteneva all’inizio. Fu un aspetto importante dell’intervento sul debito greco (Red.)