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In questa fase di accordi fiscali tra la Svizzera e alcuni paesi vicini non poteva mancare, da parte dei rappresentanti delle classi dominanti, il riferimento alla necessità di “salvare” i posti di lavoro. L’inizio delle trattative per un accordo (tipo Rubick) con l’Italia ha dato la stura ad un coro di commenti (di partiti, imprenditori, associazioni) preoccupate per la “nostra” piazza finanziaria e per il fatto che un accordo penalizzante per  la piazza potesse avere ripercussioni sui posti di lavoro. Se scappano in clienti italiani, ci si racconta, addio piazza finanziaria, addio posti di lavoro, addio benessere, ecc. ecc.

È uno scenario che abbiamo visto molte volte e che ha un solo obiettivo: difendere i privilegi di pochi con l’idea che, se così non si facesse, vi sarebbero conseguenze catastrofiche per la grande maggioranza della popolazione. In altre parole, se la  piazza finanziaria ticinese non potesse continuare a essere la mèta privilegiata di evasori fiscali e furbi di ogni genere sarebbero in pericolo migliaia di posti di lavoro.

È un ragionamento assolutamente inaccettabile per più ragioni. Vediamole.

La prima è legata alle responsabilità della situazione attuale. Se oggi siamo a questo punto, se il mondo bancario svizzero subisce un’offensiva da parte degli stati vicini (e anche di quelli lontani), la responsabilità è di chi ne ha determinato i destini, sia alla testa della piazza finanziaria, sia a livello politico con le decisioni prese in questi ultimi decenni. Non hanno per contro alcuna responsabilità i lavoratori e le lavoratrici del settore bancario che, in questi decenni, hanno contribuito con il loro lavoro e la loro intelligenza a garantire decine e decine di miliardi di utili alle banche attive sulla piazza finanziaria ticinese. Non si capisce quindi perché una diminuzione dei profitti di queste banche dovrebbe essere caricata sui salariati del settore e non sugli azionisti delle banche i quali dovrebbero accollarsi le conseguenze delle loro scelte aziendali e politiche.

Una seconda considerazione investe la questione del rapporto tra sviluppo degli affari e sviluppo dei posti di lavoro. Non vi è stato in questi anni alcun automatismo favorevole ai salariati. L’impressionante aumento della somma di capitali amministrati, delle somme di bilancio, dei profitti (che sono sempre stati enormi se escludiamo qualche anno al momento del manifestarsi  delle diverse crisi che hanno costellato gli ultimi due decenni) non hanno portato a quella impressionante crescita dei posti di lavoro come si vorrebbe far credere. Basterebbe qui ricordare qualche semplice dato.  Se prendiamo gli ultimi 25 anni di dati disponibili (1985 – 2010) constatiamo come il numero degli istituti bancari attivi in Ticino sia aumento in modo importante: da 286 a 342. Un aumento che si è riverberato sulla somma di bilancio passata da circa 20 miliardi di franchi a più di 47 miliardi. Ebbene se prendiamo il numero degli occupati vediamo che essi sono di meno di quanti non fossero trent’anni fa: 7’577 nel 1985, 7’046 nel 2010!

Sappiamo quindi che l’enorme sviluppo della piazza finanziaria non ha direttamente beneficiato all’occupazione nell’industria bancaria (lascio da parte qui il settore ad esso collegato: ma questo ragionamento  dell’indotto potrebbe valere per qualsiasi altro settore). Non vi è stato cioè un rapporto diretto (o proporzionale in qualche misura, pur tenendo conto delle innovazioni tecnologiche e delle specificità del settore) tra aumento degli affari (e dei profitti) e lo sviluppo di occasioni di lavoro per i salariati del cantone.

Abbiamo anzi assistito, soprattutto in questi ultimi anni, ad una politica piuttosto brutale di licenziamenti, di decurtazioni salariali, di declassificazioni e di intensificazione dei ritmi di lavoro. Senza dimenticare la drastica diminuzione di posti di lavoro offerti ai giovani (dagli apprendistati agli stages di un anno e mezzo pagati).

In realtà, e questo vale per le banche con sede in Ticino così come tutte le altre, in questi ultimi due decenni le banche si sono preoccupate di tutto meno che dello sviluppo economico e sociale del Cantone. Potremmo dire esattamente il contrario: le banche hanno approfittato fortemente dello sviluppo economico e sociale del cantone, utilizzando questo stesso sviluppo come elemento fondamentale della loro offerta nei confronti di capitali desiderosi di sfuggire al fisco del loro paese e alla giustizia penale.

La crisi eventuale di una diminuzione degli “affari” sulla piazza ticinese non dovrebbero pagarla i lavoratori (del settore bancario e di quelli ad esso legati) con la soppressione di posti di lavoro, come sostiene la litania dei difensori del segreto bancario a oltranza. Tocca alla banche pagare, garantendo posti di lavoro (ad esempio diminuendo drasticamente l’orario di lavoro), sostenendo la riqualificazione del personale, diversificando la loro attività e tornando a fare quello che i libri di testo economico (liberali) ci insegnano: raccogliere danaro e immetterlo nel circuito economico, meglio se in quello direttamente produttivo.

Per fare tutto questo le banche hanno enormi disponibilità finanziarie, accumulate in decenni (non anni) di vacche grassissime. È ora che mettano mano al portafoglio.