Se ci si ferma un attimo ad osservare la profondità della crisi sociale che investe l’Europa, ci si rende immediatamente conto come il tratto caratteristico fondamentale sia la rimessa in discussione di bisogni fondamentali che toccano milioni di uomini e donne.
Tali bisogni prendono la forma di rivendicazioni di diritti: al lavoro, ad una casa, alla formazione, all’assistenza sanitaria; ad un reddito (sotto forma di salario, di pensione e di prestazioni pubbliche in senso ampio) che denominiamo salario sociale. Risultato, quest’ultimo, della evoluzione storica di una determinata società e, fondamentalmente, dei rapporti di forza tra capitale e lavoro.
Oggi, come detto, tali bisogni fondamentali, la cui soddisfazione aveva caratterizzato lo sviluppo dei diritti sociali nel dopoguerra, sono totalmente rimessi in discussione. E le politiche di austerità che investono tutta l’Europa (o che l’hanno investita con grande brutalità già diversi anni fa – è il caso della Germania che a questo tipo di politiche deve il miracolo – per altro già esaurito – del suo recente sviluppo) tendono a distruggere quel poco che di quei diritti era rimasto dopo anni di governi (non importa il colore politico ufficiale dei loro leader – si chiamassero Blair, Zapatero o Sarkozy) che avevano proprio su questa rimessa in discussione incentrato la loro azione.
Oggi è evidente che da questi bisogni e da questi diritti deve partire una politica che voglia seriamente essere di sinistra. Che significa, molto semplicemente, mettere al primo posto questi elementari e fondamentali bisogni di milioni di persone e trasformarli in diritti da garantire attraverso l’azione politica.
Ma è altrettanto evidente che su questo terreno non si potranno fare passi concreti, persino modesti oseremmo dire, senza rimettere in discussione gli attuali rapporti di forza tra capitale e lavoro. In altre parole il diritto al lavoro, ad un reddito decente, alla sanità ed alla formazione non possono essere né garantiti e nemmeno migliorati senza rimettere in discussione i diritti del capitale. I diritti che questo si arroga di decidere cosa, come e dove produrre; di decidere quale sia la remunerazione di chi lavora; di fissare quale parte dei propri profitti debba andare in imposte; e potremmo continuare a lungo in questa lista che rappresenta il “potere assoluto” che i detentori di capitale hanno nelle nostre società.
Nessun governo, qualsiasi sia la sua maggioranza, potrà seriamente fare qualche passo avanti nella direzione che abbiamo indicato senza mettere in conto uno scontro, politico e sociale, con il capitale e le forze che lo sostengono.
In realtà persino i governi che affermano di voler rispondere ad alcuni di questi bisogni sono partiti in una direzione totalmente diversa dalla rimessa in discussione del potere e dei diritti del capitale. Essi vorrebbero, come è il caso del governo francese, mettere in moto una dinamica virtuosa attraverso la quale siano i meccanismi stessi del capitalismo (la famosa “crescita”) a innescare ricadute positive: in termini di occupazione, reddito, socialità.
Una ricetta che abbiamo già visto fallire a più riprese. Una ricetta che non farà che lasciare un seguito di delusione, amarezza che, non da ultimo, nutre anche quei movimenti che denunciano la sostanziale identità di orientamenti tra schieramenti sulla carta diversi (è il caso, in Italia, del movimento 5 stelle).
Solo da proposte radicali potranno arrivare risposte adeguate a bisogni elementari che emergono in tutte le società europee, Svizzera compresa. Ma per poter incidere sul potere e sui diritti del capitale è necessario mettere in campo tutta la forza sociale e politica dei salariati e delle classi popolari in lotta per il soddisfacimento dei loro bisogni. Un compito sul quale dappertutto in Europa, al di là delle pur importanti scadenze elettorale, una sinistra di sinistra deve concentrare la propria azione fondamentale.