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La solidarietà internazionale sulla rivolta siriana è al di sotto dei minimi accettabili. Pesa l’atteggiamento di un “antimperialismo” datato ma anche noi abbiamo le nostre responsabilità. Forse non è tardi provare a prendere un’iniziativa.

 

Potremmo raccontarci, in maniera consolatoria, che la mancata reazione politica in Italia di fronte a quanto sta succedendo in Siria – una qualsiasi reazione, che almeno mostri partecipazione e/o preoccupazione – sia dovuta al periodo estivo, alle assenze, all’impossibilità di organizzare qualsiasi tipo di iniziativa significativa.

Potremmo. Ma sappiamo benissimo che ci prenderemmo in giro da soli, perché la ragione non è quella. E allora perché?

 

A mio avviso ci sono tre ragioni che «spiegano» (ma non giustificano) l’assenza di qualche reazione solidale e partecipata alla tragedia siriana.

La prima riguarda la più generale difficoltà di mobilitazione che almeno da 5/6 anni sta vivendo il movimento pacifista e contro la guerra. Non è questa la sede per ricercarne le ragioni, che sono legate alla «sconfitta» del movimento vissuta con lo scoppio e la conduzione della sanguinosa guerra in Iraq – guerra che non siamo riusciti a fermare – e con la rottura in seguito all’esperienza disastrosa del governo prodi e della partecipazione ad esso della sinistra che si voleva pacifista.

 

La seconda ragione risiede nel cattivo stato in generale della «solidarietà internazionalista» e nella scarsa capacità di lettura delle rivoluzioni arabe degli ultimi due anni. Perché dobbiamo riconoscere che non c’è stata una forte partecipazione della sinistra e dei pacifisti italiani alle manifestazioni di egiziani, tunisini e cittadine/i dei paesi arabi in genere in solidarietà con le rivoluzioni nei loro paesi.

Un’assenza che è lo specchio delle difficoltà generali di una solidarietà internazionalista di tipo politico – che vada cioè oltre la solidarietà materiale. Difficoltà che vediamo anche nel caso del sostegno al popolo palestinese, che pure vede centinaia di iniziative e gruppi impegnati, con spesso scarsa efficacia e capacità di organizzazione comune.

Ma anche in questo caso c’è qualcosa di più, ed è la «puzza sotto il naso» nei confronti di rivoluzioni che non sono state riconosciute come tali, che non hanno scatenato passioni perché non erano immediatamente riconoscibili dalla nostra formazione ideologica e perché sembra (ad alcuni sguardi non si capisce quanto ingenui o quanto ambigui) che non abbiano prodotto altro che gattopardesche alternanze di potere e nessuna reale rottura internazionale. Come se la cacciata di Ben Alì, l’arresto di Mubarak (e le elezioni libere in questi due paesi) e la stessa liberazione dalla dittatura di Gheddafi (pur nella tragedia di un intervento della Nato che ha certamente condizionato le dinamiche di quel paese, comunque oggi più aperte di quanto fossero sotto il giogo del regime familiare dei Gheddafi) fossero poca cosa e non rappresentino punti di non ritorno che permettono una possibile (e auspicabile) riorganizzazione di una sinistra radicale di tipo nuovo e un’organizzazione indipendente di lavoratrici e lavoratori, in particolare giovani.

 

La terza ragione è specifica della situazione siriana. In questo caso la distanza di molti soggetti per le dinamiche delle rivoluzioni arabe è diventata avversione diretta e profonda per la rivoluzione siriana e i suoi protagonisti, considerati ne più ne meno come eterodiretti e frutto della volontà imperialista di porre fine ad un’esperienza considerata «antisionista» e non allineata all’imperialismo stesso.

Intendiamoci. Pochi si sono spinti a difendere la dittatura di Bashar Assad, o comunque a non vedere la natura autoritaria del regime baathista siriano. Ma il fervore «antimperialista» ha portato a posizioni che di fatto diventano gustificatorie del regime e sprezzanti nei confronti dell’opposizione siriana (a parte quella di «sua maestà», che non si capisce perché venga presa sul serio in quel paese, come non se ne conoscesse la natura servile e subalterna).

Prendiamo due esempi, e nemmeno dei peggiori in quanto a fonte e soggetti a cui si riferiscono.

Il primo si può leggere nell’articolo “Il terrorismo anti-siriano e i suoi collegamenti internazionali” di Bahar Kimyongür, tradotto e pubblicato da diversi siti di sinistra comunista e non. Scrive l’autore che “il compito per mantenere in piedi questa struttura etnico-religiosa fragile e complessa [in Siria] si dimostra così difficile, che solo un regime laico, solido e necessariamente autoritario può assolverlo”. Sembra stia parlando della fase post-rivoluzionaria del bolscevismo del ’17!

Questo è un esempio di come l’avversione per il “nemico” diventi giustificazione e di fatto assoluzione dei crimini del “nemico del nemico (principale)”.

 

Il secondo esempio lo si può trovare pubblicato su Peacelink (“Siria: la lotta armata, una trappola. Risposta alla “Lettera Aperta” sulla Siria”, 11/8/, di Patrick Boylan della rete NoWar di Roma e di U.S. Citizens for Peace & Justice).

Ci ha particolarmente colpito questo lungo ragionamento: “‘Ma – si obietterà – il ricorso alle armi era necessario per proteggere i manifestanti!’. Non è vero. Infatti, per “proteggere i manifestanti” bastava non manifestare, ricorrendo invece alla lotta clandestina, come hanno fatto i giovani antifascisti italiani quando si sono trovati sotto il tallone nazista. Nell’Italia del dopo 1943 non si protestava in piazza per mandar via le truppe naziste (sic! NdR), parandogli addosso “per proteggere i manifestanti”: farlo sarebbe stato innescare una strage e basta! Come si è visto in Siria.Ma questo errore i giovani siriani l’hanno commesso, anche perché incitato a commetterlo dalla quinta colonna americana operante in Siria dal 2006, dalla TV siriana della CIA, e dall’ambasciatore americano Ford che si è recato personalmente a Homs per incoraggiare i rivoltosi. E dai mass media occidentali. E dai blog di tanti giovani occidentali, entusiasti della “rivoluzione”. E in particolare dagli arabisti occidentali che, attraverso chat, Twitter e Skype, hanno espresso solidarietà ai loro amici siriani che inneggiavano alla lotta armata […].

 

Trovo davvero sconfortante questo ragionamento. Cosa penseremmo di qualcuno – a “sinistra” – che sostenesse che i palestinesi uccisi durante la prima e, soprattutto, seconda Intifada se lo siano andati cercare perché spingevano l’esercito israeliano a rispondere con le armi? Nel migliore dei casi non lo prenderemmo sul serio, altrimenti lo tratteremmo da provocatore….

Per non parlare dell’implicito razzismo secondo il quale la gioventù siriana non manifesterebbe perché convinta delle sue ragioni, ma perché “incitata”, “incoraggiata” da occidentali amici della Cia o di essa servi sciocchi. Tutto nasce in occidente, sono i bianchi occidentali a pensare, gli arabi reagiscono solamente a queste spinte. Davvero vergognoso.

 

Non sono mancate nemmeno strane relazioni tra l’antimperialismo di sinistra e i’autoprolamato «antimperialismo» di gruppi neonazisti o simili (per quanto neghino questa loro identità), spesso legati alla rivista «Eurasia», dove si possono leggere articoli di Claudio Moffa, traduzioni del “compagno” Zjuganov accanto ad editoriali di Claudio Mutti, già legato a Ordine Nero e poi «inventore» di un islamismo di destra radicale, con la casa editrice “Edizioni del Veltro”.

Nella maggior parte dei casi queste relazioni «rossobrune» sono frutto di scarsa attenzione e ingenuità, in altre di sottovalutazione se non «giustificazione». Ma sarebbe ora di comprenderle e denunciarle con forza, anche per evitare che compagne/i caschino in queste trappole (basta guardare Facebook per capire quanto sia reale questo rischio).

 

Il risultato di tutto questo è stata l’incapacità di trovare un terreno comune di iniziativa tra coloro che vogliono manifestare la loro opposizione a qualsiasi intervento armato (della Nato e dei loro amici arabi) e la solidarietà politica alle rivoluzioni (o rivolte, se qualcuno preferisce) contro regimi dittatoriali – rivolte che hanno la loro ragione d’essere e la loro base materiale nell’insostenibilità di quei regimi, nella ribellione di una gioventù esasperata dalla mancanza di futuro (in Siria il 45% dei giovani è disoccupato) e dalla gabbia che li tiene lontani dalla partecipazione politica e culturale. A questi giovani, alla loro rivolta – spesso pacifica e non per questo meno brutalmente repressa -, alla loro speranza di una caduta dei regimi dittatoriali dovevamo e dovremmo mostrare tutta la nostra incondizionata solidarietà.

 

Le belle analisi geopolitiche, le distanze che possiamo – e dobbiamo – mostrare nei confronti di soggetti che non rappresentano certo esempi progressisti, non può e non deve fermare questa solidarietà.

Anche in questo caso intendiamoci: la colpa non è solo di “altri”. Noi che dovremmo esprimere questa solidarietà noi che siamo convinti di doverla esprimere, di manifestare il nostro sostegno alla rivolta siriana e ai giovani coinvolti, al popolo siriano che paga le colpe del regime, di esprimere con forza la nostra opposizione a interventi esterni – anche noi siamo stati silenziosi, assenti, incapaci di parlare – per debolezza nostra, perché presi da altri (non meno importanti) problemi, perché poco convinti della nostra efficacia.

 

Troppo tardi? Non credo, non è troppo tardi per provarci, per far vedere questa nostra solidarietà politica e materiale, renderla visibile, renderla efficace, renderla capace di costruire reti e relazioni con le/i giovani che manifestano e combattono, renderla capace di un impegno di sostegno anche materiale.

Proviamoci, manifestiamoci.

Per la caduta del regime di Assad, la costruzione di una Siria indipendente (anche dai padrini russi e iraniani) e democratica, contro ogni intervento militare straniero in Siria e medioriente (Usa, Nato, degli stati reazionari arabi – ma anche della Russia…).

 

*Tratto dal sito www.http://ilmegafonoquotidiano.globalist.it