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Quasi quattro anni dopo il fallimento della banca americana Lehman Brothers, la crisi è lungi dall’essere terminata. Al di là di Grecia, Spagna o l’Italia, è l’intera zona euro a mostrare una crescita a mezz’asta. A livello mondiale,  persino la Cina manifesta un rallentamento della sua attività.

 

“Siamo di fronte a una crisi     di una gravità eccezionale, una crisi lunga che dura ormai da più di quatto anni e nessuna delle grandi potenze economiche, nemmeno quelle emergenti, ne è ormai risparmiata.”.

Per una volta si può essere d’accordo con questa diagnosi di François Hollande contenuto  nel discorso  pronunciato a Châlons-en-Champagne il 13 agosto scorso (il che non significa che condividiamo  i rimedi da lui proposti). Ci avviciniamo all’anniversario del fallimento della banca americana Lehman Brothers, avvenuto il 15 settembre 2008, senza che si profili un’uscita dalla crisi.

 

La crescita mondiale a  mezz’asta

 

Le previsioni del Fondo monetario internazionale (FMI) pubblicate nella metà di luglio rivelano il nuovo rallentamento dell’economia. La crescita dei paesi “avanzati” (America del Nord, Unione europea, Corea del Sud ecc.) è due volte meno elevata che nel 2010. Il marasma è particolarmente forte nella zona euro con una crescita negativa nel 2012 (-0,3%). La Francia se la cava dunque un po’ meglio dei suoi vicini (+0,3%), ma, contemporaneamente a questo dato, vi sarà l’esplosione della disoccupazione: il ministro del lavoro, Michel Sapin, ha annunciato che la soglia del 10% di disoccupati era già stata superata. Infatti, la Francia va verso il suo record di disoccupazione dopo il 1975: 10,8% nel primo semestre 1997 (per la sola Francia, senza i DOM-TOM). Nel resto del mondo, il rallentamento è limitato, ma reale. La crescita del Brasile è 3 volte più bassa che nel 2010. Quella dell’India  tende pure a diminuire e sarà senza dubbio, nel 2012, più debole di  quella prevista dall’FMI (nell’ordine del 5,5%). Vale lo stesso per la Cina, la cui crescita dovrebbe assestarsi, in diminuzione, attorno al 7,5%…

 

Dietro questo quadro, si manifestano tre fenomeni principali:

 

– La debolezza della crescita negli Stati Uniti e in Europa sono l’indizio che le cause iniziali della crisi non sono state superate: tendenza alla sovraccumulazione, peso dei debiti accumulati, incertezza sul bilancio delle banche che alimentano la sfiducia, ingegnosità degli speculatori e dei finanzieri.

 

– Le principali classi dominanti dei paesi occidentali sono lacerate dalle loro divisioni sulla strategia economica: repubblicani ultraliberali contro democratici negli USA, divisioni tra i diversi paesi in Europa.

 

– La fine dell’illusione secondo la quale le economie emergenti, e in particolare la Cina, potevano venire in soccorso delle economie dell’ OCSE.

 

Negli USA e in Europa, le borghesie e la loro rappresentanza politica sono divise sulla maniera di gestire le finanze pubbliche (negli USA) e sulla questione monetaria (nella zona euro), ma unite sulle politiche di austerità sociale e salariale e sulla volontà di mantenere il quadro neoliberale. Nessun radicale cambiamento di questo orientamento si profila per ora all’orizzonte.

Negli USA, Obama e Romney sono entrambi, ognuno a modo suo,i candidati dell’ “1%”, secondo la ormai celebre formula lanciata dal movimento “Occupy Wall Street”. Tuttavia, una vittoria del repubblicano Romney segnerebbe un ritorno a politiche ultrareazionarie e belliciste.

 

L’Europa, anello debole della situazione

 

L’Europa sembra l’anello debole nella configurazione del capitalismo attuale. La sua crescita, come si è visto, è la più disastrata tra quelle di tutte le grandi zone economiche. La recessione che la colpisce in questo 2012 indebolisce il commercio mondiale tramite il rallentamento delle sue importazioni, e quindi l’attività degli altri paesi: mentre la sua crisi finanziaria  (situazione delle banche, debiti pubblici) accresce l’incertezza globale. Dopo tanti vertici europei presentati come decisivi, la crisi bancaria spagnola combinata con la situazione della Grecia ha segnato una nuova tappa. Le misure di austerità accentuano la debolezza della crescita  e la disoccupazione, ma nessun settore essenziale delle classi dominanti sostiene un virata complessiva delle politiche economiche e non c’è una pressione effettiva del movimento operaio europeo in questo senso. Certo, per la prima volta, la Confederazione europea dei sindacati si oppone a un trattato europeo rifiutando il fiscal compact (cioè   il trattato europeo che prevede il divieto di deficit di bilancio, rafforzato da meccanismi automatici di correzione NdT). Ma c’è una differenza tra simili dichiarazioni e la preparazione di movimenti unitari dei salariati europei. Movimenti d’insieme che dovrebbero andare oltre le giornate di azione  di fronte alle quali  i poteri non sono disposti a fare la minima concessione. Infine, gli antiliberali radicali e gli anticapitalisti sono troppo deboli e troppo poco coordinati per aver un peso tale da imporre soluzioni radicali a livello europeo.

 

Coloro che approfittano della crisi e la massa degli altri

 

Su scala mondiale, 25 milioni di milionari, che rappresentano lo 0,5%della popolazione, concentrano da soli il 36% delle ricchezze, secondo il rapporto 2011 sulla ricchezza mondiale pubblicato dal  Crédit Suisse. Un rapporto del Centro di ricerca del Congresso degli Stati Uniti mostra come gli americani più ricchi si sono arricchiti dopo il 2011: 10% della popolazione possiede ormai 75% della ricchezza nazionale e, al loro interno, l’ 1% dei più ricchi ne possiede quasi il 35%.

Altri pagano i vasi rotti, come mostra un rapporto recente dell’Ufficio internazionale del lavoro. Limitandosi ai soli paesi sviluppati (il che non vuol dire che il resto del mondo sia risparmiato):

 

– La disoccupazione erode le società e la situazione dei giovani è particolarmente critica. Il tasso di disoccupazione supera il 45% in Grecia e in Spagna (In Spagna è passato dal 18% del 2007 al 45,8% attuale). La disoccupazione di lunga durata è progredita.

 

– La qualità degli impieghi si è deteriorata. La parte di impieghi a tempo parziale e dei contratti di durata limitata (di diversi tipi, compreso l’interimato) è  aumentata tra il 2007 e il 2011. Questo tipo di impieghi sono poi stati i primi ad essere soppressi all’inizio della crisi ma, in seguito, le nuove  assunzioni si fanno in proporzione maggiore sotto questa forma. Questi impieghi hanno salari nettamente inferiori rispetto agli impieghi a tempo indeterminato.

 

– Minori possibilità di  accesso ai servizi sanitari. In Europa, il caso della Grecia è il più drammatico con tagli del 40% dell’importo dei bilanci degli ospedali pubblici. Negli Stati Uniti, le economie domestiche devono ormai sopportare spese di sanità rovinosamente costose dopo la perdita dell’impiego e dell’assicurazione malattia ad esso legata; il possibile impatto della riforma Obama non si farà realmente sentire prima del 2014.

 

– Attacchi profondi al diritto del lavoro. Numerosi paesi hanno introdotto riforme del diritto del lavoro che spesso hanno ammorbidito le regole di protezione contro il licenziamento. La proporzione di salariati coperti da convenzioni collettive è diminuita. In Grecia, in Spagna e in Portogallo, leggi introdotte dopo il 2010 permettono deroghe agli accordi di categoria e riducono le garanzie individuali e collettive in caso di licenziamento.

 

–  Austerità di bilancio. Ventidue dei ventisette paesi del’UE hanno bloccato o ridotto i salari dei funzionari. Un egual numero ha ridotto le prestazioni sociali: indennità di disoccupazione e rendite pensionistiche (aumento dell’età, diminuzione delle rendite, accesso più difficile).

 

 

* articolo apparso sul settimanale Tout est à nous del 6 settembre 2012. La traduzione è stata curata dalla redazione di Solidarietà.

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