Pubblichiamo qui di seguito l’editoriale dell’ultimo numero di Solidarietà (n° 18 del 1° novembre 2012).
Sta suscitando grande impressione la decisione dell’uso di tagliare il 15% dei posti di lavoro in tutto il mondo (circa 10’000), un quarto dei quali (circa 2500) in Svizzera. Naturalmente, ad un’analisi fredda e razionale, questa decisione può apparire tutto sommato ancora contenuta, vista la reale difficoltà nella quale si trova non solo il cosiddetto mondo della finanza, ma l’economia capitalista nel suo complesso su scale mondiale.
Stiamo infatti ormai per chiudere questo 2012 che, soprattutto nella seconda parte, avrebbe dovuto essere l’anno della «svolta», a sentire i commentatori e gli analisti che ci avevano ammannito, lo scorso anno, una serie di previsioni sugli sviluppi dell’economia internazionale.
Invece, e come poteva essere diverso, le contraddizioni del capitale sono ancora tutte lì; e le misure che vengono man mano prese (e presentate come «risolutive») sono poco più che dei cerotti. La verità è che i problemi di fondo, come detto, rimangono irrisolti. Vendiamolo.
L’economia capitalista soffre, indubbiamente, di una classica crisi di sovrapproduzione. In altre parole si produce molto di più di quanto il potere d’acustico possa assorbire e non è più possibile, visto quanto successo, «dopare» in modo straordinario questa capacità d’acustico ricorrendo al debito. Oggi, caso mai, il debito permette di mettere una toppa ad altri debiti o, al limite, di tirare avanti.
L’illustrazione più evidente di questa crisi è data dall’industria automobilistica mondiale che si trova confrontata con la necessità di ridurre le sue capacità produttive, perlomeno in Europa.
Un secondo elemento fondamentale, strettamente collegato al primo, è una sovraoccupazione di capitale. Cioè le masse enormi di capitale non riescono ad essere remunerato come vorrebbero e come dovrebbero poiché la massa di profitti generata non è sufficiente.
Da qui la necessità, già evocata, di distruggere capitale (è il ruolo che il capitalismo assegna alle crisi), cercando in questo modo di aumentare (o evitare che diminuisca) il tasso di profitto.
Ma poiché il capitale è un rapporto sociale, questa distruzione di capitale rappresenta una vera e propria distruzione di ricchezza sociale, di conoscenze, spesso di vite umane. Distruzione di capitale non significa altro che chiusura di aziende, abbandono di attività e settori produttivi, disoccupazione per milioni di salariati (che altro non sono, come rende bene l’idea il linguaggio comune dominante, che «capitale umano»).
Infine, e non è certo l’aspetto meno importante, la crisi apertasi nel 2008 non ha risolto il problema dell’enorme debito che pesa sul funzionamento dell’economia capitalista.
Tutte le misure prese in questi ultimi mesi sia a livello europeo che mondiale non hanno, come detto, risolto il problema di fondo. Che è la presenza di una massa di debito enorme (frutto dello sviluppo del capitalismo degli ultimi vent’anni) che, in nessun modo – nel quadro di uno sviluppo normale del capitalismo -, potrà essere riassorbito.
Da queste contraddizioni le classi dominanti cercano di uscire (o meglio, di convivere) ricorrendo ad un’ulteriore crescita del divario tra capitale e lavoro. Le politiche di austerità cercano di recuperare ulteriormente quella parte di ricchezza che andava al lavoro sotto forma di salario sociale inteso in senso complessivo (salari, spesa sociale, ecc..) per riallocarla a beneficio del capitale.
Ma, lo ripetiamo, tutto questo non potrà che alleviare, e temporaneamente, la crisi profonda del capitalismo.