Ancora una volta, Israele, che continua ad essere una potenza di occupazione a Gaza, ha scatenato la sua macchina di guerra contro i Palestinesi occupati. Dall’inizio della seconda Intifada, nel 2000, questo rituale è diventato compulsivo e ripetitivo. Israele ha innescato un nuovo ciclo di “violenze” sanguinose prendendo di mira combattenti della resistenza palestinese con l’obiettivo di “dar loro la caccia come si fa con le bestie”, ha spiegato Yisrael Katz, ministro dei trasporti del governo israeliano.
In questa nuova serie guerresca, i bombardamenti a tappeto – o “la caccia”, per usare il linguaggio coloniale di Katz – hanno suscitato dall’altra parte la risposta con tiri di razzo. Questi tiri costituiscono un tentativo di risposta contro il blocco e la violenza imposti a Gaza, di affermare la presenza palestinese e la volontà di resistere in qualche maniera a decenni di occupazione.
Molti commentatori hanno notato che all’inizio gli obiettivi dichiarati di questo rituale sanguinario erano limitati. Il 14 novembre, primo giorno di questa guerra, Ehud Barak (ministro della Difesa) ha dichiarato che gli attacchi israeliani miravano a ridurre la resistenza palestinese, piuttosto che ad eliminarla. Né Benyamin Netanyahu, né Ehud Barak volevano promettere ai loro elettori (saranno le elezioni anticipate il 22 gennaio 2013) risultati che sapevano di non essere in grado di raggiungere. Ma una tale “riduzione” avrebbe potuto essere ottenuta molto bene attraverso altri metodi di pacificazione di cui può disporre lo Stato coloniale, tra cui, ad esempio, una tregua negoziata alla quale Hamas aveva già peraltro dato il suo accordo.
Ci si deve perciò chiedere se la resistenza palestinese fosse l’unico – o il vero – obiettivo di questa guerra. In effetti, invece di andare in direzione di una pacificazione, Israele ha ancora una volta – come in occasione delle sue precedenti spedizioni militari a Gaza – cercato di dimostrare la sua superiorità sul terreno, per aria, per mare e sul popolo palestinese, testando le sue alleanze e le sue inimicizie internazionali sulla base delle reazioni alla sua aggressione coloniale. Netanyahu e Barak tentano, allo stesso tempo, di segnare punti a proprio vantaggio per migliorare le loro prospettive in occasione delle prossime elezioni israeliane.
Gli obiettivi menzionati sopra sono diversi e non del tutto compatibili. Ma appartengono alla stessa logica di strumentalizzazione di Gaza come terreno sul quale Israele tenta di perseguire i propri obiettivi politici e militari interni, regionali e internazionali. Gaza, per Israele, è diventata letteralmente il terreno di prova di diverse esperienze e un luogo ove soddisfare le ambizioni personali dei politici israeliani. È in Israele che si si decide di trasformare Gaza in un laboratorio per l’egemonia coloniale e imperialista nella regione. In quanto potenza occupante, Israele ha trasformato Gaza in un laboratorio del genere, imponendovi varie forme di isolamento che sono sfociate nel blocco imposto nel 2006 e da allora mantenuto.
L’isolamento riduce i controlli sulle operazioni militari israeliane e sull’autodifesa che può opporre Gaza alla macchina da guerra israeliana. L’orrore di quest’ultima guerra non riguarda dunque solo la distruzione che genera, ma anche le condizioni che la rendono così agevolmente possibile. Ecco quindi una popolazione tenuta in ostaggio, che Israele può attaccare a volontà per raggiungere obiettivi che non hanno molto a che vedere con Gaza in quanto tale. L’orrore riguarda la strumentalizzazione minuziosa e misurata della popolazione palestinese e questa logica che fa sì che i colonizzati siano esseri che i coloni possono sacrificare per qualsiasi scopo.
È la ragione per cui gli oppositori a questa guerra dovrebbero andare al di là della condanna della violenza assassina e della distruzione che essa genera. La macchina militare israeliana ha distrutto molte zone della Palestina a partire dal 1948, dai bombardamenti e dalla pulizia etnica di interi villaggi durante la guerra del 1948 (Nakba) e la conquista del resto della Palestina nel 1967, fino alle invasioni e agli attacchi nel corso degli ultimi 45 anni. Bisogna opporsi a tutte queste campagne di distruzione. Ma quest’ultima guerra contro Gaza rivela la sua particolare fragilità e la sua vulnerabilità di fronte a questi esperimenti israeliani, più importanti che in altre parti della Palestina.
Anche se Gaza è accerchiata e isolata, non è però staccata dal resto della Palestina. Le particolari forme di isolamento, di distruzione e di sperimentazioni esercitate a Gaza sono parte integrante della dominazione coloniale israeliana. Questa dominazione è mantenuta e riprodotta attraverso la suddivisione della Palestina e del popolo palestinese in diversi gruppi di popolazione – gli esiliati, la popolazione di Gaza, quella della Cisgiordania, quella di Galilea e del Triangolo e via di seguito. La proliferazione di popolazioni palestinesi ha comportato “soluzioni” diverse per queste diverse popolazioni; “soluzioni” che fanno sì che la produzione stessa di popolazioni specifiche e di distinte soluzioni siano precisamente il principale successo della dominazione coloniale israeliana, cosa che spesso non viene compresa in tutta la sua portata. Così, gli abitanti di Gaza, esattamente come i rifugiati in altre regioni, sono diventati spesso oggetto di aiuto umanitario. I cittadini palestinesi d’Israele rivendicano l’uguaglianza e la trasformazione dello Stato in una democrazia con uguali diritti per tutti i suoi cittadini. I residenti palestinesi della Cisgiordania sono in una certa misura beneficiari di fondi per lo sviluppo da parte di donatori internazionali e del mondo degli affari, mentre gli abitanti di Gerusalemme cercano di rafforzare il loro statuto legale di residenti per evitare la loro deportazione o il loro spostamento forzato. Il blocco e le guerre sperimentali contro Gaza, che questo processo rende possibili, non sono che gli strumenti più visibili e più violenti attraverso i quali Israele consolida la propria dominazione coloniale.
L’assedio di Gaza ha anche altri effetti. Si tratta di un territorio di 365 km2 con una popolazione di 1,5 milioni. Gli abitanti di Gaza non hanno nessun posto dove fuggire, perché sono stati confinati in quella che è diventata la più grande prigione del mondo. D’altronde, il blocco in queste condizioni di densità demografica fa cadere completamente la distinzione tra civili e combattenti, trasformando di fatto tutti i palestinesi in combattenti, in quanto possono essere uccisi e considerati dei semplici “danni collaterali”. Il primo giorno di guerra, Netanyahu ha dichiarato che Israele non avrebbe preso di mira i civili; un aereo militare ha sparso volantini che avvertivano le persone di stare lontane da possibili bersagli. Anche se accettiamo (magari ingenuamente) che Israele faccia degli sforzi minuziosi per risparmiare le vite dei civili palestinesi, il blocco che impone e la densità della popolazione rendono impossibile separare fisicamente i civili dai combattenti. Il discorso moralista di Netanyahu fallisce, non perché è ipocrita, ma, peggio, perché lui, come altri politici israeliani, ha reso impossibile la sua realizzazione.
Se Barak all’inizio insisteva sugli obiettivi limitati della guerra, gli ufficiali israeliani hanno in seguito annunciato che Israele non cesserà il suo assalto se non quando Hamas “chiederà supplicando” un cessate il fuoco. Questo desiderio di umiliare i palestinesi e di schiacciare ogni resistenza prova che questa guerra ha un altro obiettivo, più importante: quello di ricordare a tutti gli interessati che è Israele a fissare le regole.
Allo stesso tempo, i razzi lanciati da Gaza contro Israele ci ricordano che Israele non può continuare a imporre le proprie regole ai palestinesi come meglio crede e che il fatto di usare Gaza come laboratorio per sperimentare nuovi rapporti di forza regionali non sarà tollerato per sempre. In assenza di pressioni politiche per togliere l’assedio a Gaza, per mettere fine all’occupazione della Palestina e per permettere un ritorno dei rifugiati, quei razzi sono il solo mezzo attraverso il quale i palestinesi possono dimostrare la loro volontà di dissuasione contro Israele e dichiarare che non devono essere strumentalizzati ogni volta che la potenza occupante sceglie di farlo, che avvenga sotto forma di occupazione, di guerra o di espulsioni.
* Samera Esmeir insegna all’Università della California (Berkeley) e ha pubblicato Juridical Humanity. A Colonial History (Standford University, 2012). È anche uno degli editori della rivista Middle East Report. Questo articolo è stato pubblicato il 18 novembre sul sito Jadaliyya. La traduzione è stata curata dalla redazione di Solidarietà