L’antologia di racconti brevi Lavoro vivo è l’ultima pubblicazione delle Edizioni Alegre (aprile 2012) nella collana di narrativa Scritture resistenti, che, dal 2011, ha visto andare in stampa altri tre volumi : D’altri tempi, di Stefano Tassinari, Sorci verdi, raccolta di racconti di autori vari, e Una lenta impazienza, di Daniel Bensaïd.
Lavoro vivo nasce dalla collaborazione tra la Fiom di Bologna e dieci scrittori del panorama culturale italiano (fra i quali va ricordato, in primis, Stefano Tassinari, scrittore e militante, promotore di questa iniziativa, scomparso nel maggio di quest’anno e presente nella raccolta con le intense pagine de Il ricordo amaro di un’assenza, probabilmente tra le ultime scritte).
Si tratta, per l’appunto, di un’antologia e non si pone quindi necessariamente una lettura coesa dei racconti raccolti.
Affrontando un ampio campo tematico, le storie narrate ci restituiscono personaggi diversi tra loro, con caratteri e vissuti tra i più vari. Eppure, finita la lettura, quando chiudiamo il libro, abbiamo la sensazione di aver assistito a tante piccole tragedie, perché tragiche sono la maggior parte delle vicende narrate, svoltesi tuttavia su di un unico grande sfondo: quello del mondo del lavoro. Un mondo che viene indagato con le armi della scrittura creativa nei suoi tratti più crudi: morti sul lavoro, lavoro nero, lavoro migrante, lavoro precario, lavoro che non dà diritti, lavoro alienante.
E proprio il lavoro alienato si manifesta all’interno dei racconti sotto le sue diverse forme: estraneazione dell’uomo a se stesso e dal prodotto della sua attività creatrice. Si tratta di quel prodotto che, anche se così distante, fa brillare gli occhi di chi in esso vi ha messo le proprie capacità immanenti; come accade al padre del protagonista di Eqquessaè (di Giuseppe Ciarallo), il quale, quando vede passare un maggiolino, può affermare orgoglioso: «quelle le costruisco io»; anche dopo che, come un nomade forzato, come una merce, ha dovuto attraversare l’Italia intera (da sud a nord), per poi finire in Germania, nella città-fabbrica di Wolfsburg, come tanti altri della sua generazione «spazzati via, sradicati dalla loro terra che li vedeva crescere poveri ma rigogliosi, e scaraventati a rinsecchirsi in grigie città, a inaridirsi nella solitudine di anonimi casermoni, a nutrirsi di plastica e veleno».
Questo tema è messo in primo piano, anche se con un andamento più leggero e introspettivo, pure in Senza buccia, dove l’autore, Marcello Fois, attraverso il protagonista Raimondo Marceddu, contrappone la realizzazione dell’individuo in una libera attività (riproporre la cultura sarda attraverso balli e costumi tipici: «A Raimondo Marceddu mettetelo in costume e lui è contento»), al suo annullamento in una delle forme più alienanti del lavoro, il lavoro nero, un non-lavoro, che se «non c’era non si può perdere», come afferma la compagna di Raimondo, Elena, quando, in seguito a un contrasto con l’ingegnere, lui viene “licenziato” dal cantiere in cui lavorava come manovale.
Contrasto, quello tra salariati e padroni, che altro non è se non la forma più tangibile dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo e che, nella raccolta, compare, più o meno esplicitamente, nella maggior parte dei racconti. Risulta significativo a riguardo l’originalissimo Manovia, di Angelo Ferracuti. Con sottile ironia le pagine di questo racconto sono interamente occupate, nella finzione narrativa, dalle parole di un narratore-operaio, iscritto a Lettere e Filosofia, che scrive la sua ennesima missiva al padrone della fabbrica in cui lavora «per ricordargli che è un padrone, e che lui è un semplicissimo operaio figlio di onesti operai». L’ironia si dissolve però nell’immagine finale di una morte atroce che potrebbe toccare a chi da anni si appropria del prodotto e della vita di migliaia di lavoratori; perché solo la morte, naturale e comune a tutti gli esseri umani, annulla la distinzione tra proprietario e salariato, frutto di un sistema sociale di produzione storicamente determinato e non legato a una qualsivoglia “natura” umana.
Tutte le storie di Lavoro vivo ci ricordano che ancora oggi nel mondo del lavoro è in atto uno scontro decisivo tra chi la ricchezza la produce e chi di questa ricchezza se ne appropria. Si tratta di un conflitto che in taluni casi assume i tratti di una vera e propria guerra sociale; come ci rammenta uno dei protagonisti di Fuoco a Manhattan, di Maria Rosa Cutrufelli, a proposito delle ragioni che lo hanno spinto a raccontare, nella finzione narrativa di un’intervista, i fatti del tragico 25 marzo 1911, quando il fuoco assassinò centinaia di giovani lavoratrici: «O forse perché in fabbrica… Be’, anche la dentro c’era una guerra. E non mi pare che sia finita».