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Al  momento in cui leggerete queste righe è probabile che il sindacato VPOD abbia già deciso se lanciare o meno il referendum contro la decisione del Gran Consiglio relativa al contributo di risanamento.

Come si ricorderà, forse anche grazie alla mobilitazione del 29 novembre e del 5 dicembre, il Gran Consiglio ha optato per una variante più “moderata” della decurtazione salariale. La proposta del governo è stata modificata: dal 2% sul salario (esclusi i primi 20’000 franchi) al 2% sul salario esclusi i primi 65’000 franchi. Un sacrificio grosso modo dimezzato (da circa 10-12 milioni ai poco più di 5 milioni in totale di decurtazione salariale). Resta, naturalmente , la contrarietà di fondo che deve essere espressa contro questa misura, soprattutto se si ricorda (e male si farebbe a dimenticarlo) che questo sacrificio, grosso o piccolo che esso sia poco importa, si cumula alla grande “stangata” che i lavoratori del settore pubblico riceveranno a medio e lungo termine con la riforma della cassa pensione approvata poche settimane prima. Una riforma, vale la pena ricordarlo, che ha visto tutti i partiti (di governo e di “opposizione”, tranne il rappresentante MPS), fare quadrato a sostegno della proposta governativa.

 

 

Lo sciopero, un bilancio globalmente positivo

 

La mobilitazione del 29 novembre nella scuola e lo sciopero del 5 dicembre devono essere valutati nel complesso in modo positivo. Per una volta l’azione sindacale è riuscita a costruire una campagna di una certa durata che ha saputo mettere l’accento su punti importanti e prioritari.

In questo senso la costante attività svolta in questi ultimi anni dal Movimento della scuola (MDS) sui temi relativi alla   evoluzione della figura professionale dell’insegnante, del lavoro dell’insegnante, ha sicuramente contribuito a far crescere una nuova consapevolezza tra gli insegnanti. Le modifiche della regolamentazione della cassa pensione e la decurtazione salariale annunciata hanno fatto in sostanza da detonatori per far emergere la protesta contro un malessere degli insegnanti che affonda le sue radici nella scuola e nelle sue contraddizioni, in particolare acuite e rese insopportabili dalla politica dipartimentale condotta in questi ultimi anni.

Questo aspetto spiega, almeno in parte, la ragione per la quale lo sciopero (e la manifestazione) ha visto un’ampia partecipazione degli insegnanti, a tal punto da essere interpretata, non senza ragione, come una protesta degli insegnanti piuttosto che di tutto il settore pubblico.

Un’indicazione quest’ultima che ci dice quanto sia grande anche il ritardo accumulato dal movimento sindacale sui temi legati alla qualità del lavoro che, certamente, esistono anche nel settore amministrativo; un ritardo che, almeno in parte, spiega le ragioni per le quali la mobilitazione in questo settore stenta a decollare.

 

Come continuare?

 

Le mobilitazioni di questa ultima parte del 2012 sono da considerarsi, come detto, una conquista importante, segnale di una possibile modificazione di tendenza. Era dalla metà degli anni 2000 (con le mobilitazioni nella scuola e la grande manifestazione contro il Preventivo 2005 di Marina Masoni) che non assistevamo a così importanti e determinate mobilitazioni.

Si tratta ora di considerare tutto questo come un primo importante passo verso la costruzione di una mobilitazione più ampia che possa effettivamente coinvolgere il personale pubblico (e magari non solo quello) e possa  porre sul tappeto rivendicazioni e temi fondamentali.

Per poter raggiungere questo obiettivo appare necessario un cambiamento di metodo e di passo. Dal punto di vista del metodo ci pare decisivo fare capo a pratiche più democratiche e coinvolgenti sia nella decisione delle rivendicazioni che nell’adozione di forme di lotta. Oggi, ad esempio, la VPOD discute e consulta attraverso una votazione i propri membri sull’eventuale lancio di un referendum; una pratica democratica che mai (o quasi) in passato è stata adottata sia per  stabilire le rivendicazioni da portare innanzi, sia per decidere i mezzi di lotta (lo sciopero del 5 dicembre, ad esempio, è stato proclamato al di fuori di decisioni di assemblee ampie e sovrane, tantomeno di consultazioni di tutti gli iscritti), sia, ancora, per decidere se accettare i risultati di eventuali trattative.

Il cambiamento di passo deve invece essere rappresentato da un ancoraggio definitivo della pratica sindacale al terreno dell’azione diretta. A più riprese, in passato, abbiamo criticato la deriva “istituzionale” delle organizzazioni sindacali che molto spesso tendono a sostituire l’azione sindacale diretta, tesa a organizzare e mobilitare i lavoratori sui luoghi di lavoro, con strategie incentrate su iniziative, referendum, petizioni, ecc: tutti strumenti di sostanziale individualizzazione e istituzionalizzazione dell’azione sindacale.

Lo sciopero del 5 dicembre potrebbe rappresentare, se confermato e sviluppato, un cambiamento da questo punto di vista. Esso ha dimostrato la possibilità e la disponibilità dei lavoratori all’azione: in questo senso la giustificazione spesso adottata per la strategia “istituzionale” (“la gente non si mobilita”) ci pare abbia perso uno dei suoi presupposti di fondo (ammesso che questo fosse realmente esistito).

 

Referendum: la strada giusta?

 

Alla luce di quanto abbiamo detto appare dubbio che la decisione di lanciare il referendum sulla decisione del Gran Consiglio in materia salariale possa rappresentare veramente quel cambiamento di passo che abbiamo qui sopra auspicato.

Questo nostra posizione non si base certo su una petizione di principio. Vi sono contesti e situazioni politiche e sindacali nelle quali il lancio di un’iniziativa o di un referendum può contribuire alla costruzione di un orientamento politico e sindacale, può rappresentare uno strumento per centralizzare un’azione politica e sindacale attorno ad un obiettivo preciso.

Lo è stato, ad esempio, il lancio del referendum contro l’aumento dell’orario di lavoro per i docenti. Quel referendum, partendo dalla contestazione di una misura che andava a colpire i docenti, aveva permesso di allargare in modo considerevole il discorso alla scuola nel suo complesso, alla qualità dell’insegnamento e, elemento non trascurabile, dell’apprendimento. Grazie a quel referendum, il cui contenuto si prestava a tale operazione, la discusse nel paese divenne una discussione sulla scuola, sul servizio pubblico, sulla qualità dell’insegnamento e dell’apprendimento. Il risultato finale (fummo sconfitti per poco tutto sommato) fu la conferma di questa capacità di uscire dalla limitata questione dell’orario di lavoro.

Il referendum contro la decisione del Parlamento, soprattutto dopo la modificazione della misura originale, appare più difficile. Non tanto per il risultato, che appare scontato (anche se questo di per sé non è e non può mai essere la ragione del lancio di un referendum: se così fosse quanti referendum contro le leggi relative all’asilo o agli stranieri non avrebbe dovuto essere lanciati?), ma quanto proprio per il fatto che la materia di partenza difficilmente si presta ad allargare il discorso al servizio pubblico, alla qualità dello stesso, al ruolo dei funzionari e dei docenti, ecc.

Il lancio di questo referendum rappresenterebbe, a nostro giudizio, un passo indietro. Riporterebbe il discorso in un ambito istituzione e su un tema – quello salariale – certo importante ma che, nell’economia della mobilitazione del 29 novembre e del 5 dicembre, non assumeva la centralità che assumerebbe nel quadro di un referendum.

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