Ancora non molti anni fa, di fronte alla situazione produttiva e occupazionale del gruppo Fiat e dell’irrisolta e sempre più drammatica condizione dell’Ilva di Taranto e quindi del settore siderurgico, i partiti politici in corsa per le elezioni e il governo si sarebbero sentiti in dovere di avanzare le loro proposte di intervento, un loro progetto di “politica industriale”.
In fondo si tratta di due rami produttivi fondamentali della struttura economica del nostro paese, decisivi per la cosiddetta “azienda Italia” e la sua competitività, di cui si riempiono quotidianamente la bocca giornalisti ed esponenti politici; aziende che occupano ancora direttamente decine e decine di migliaia di lavoratori e indirettamente altre centinaia di migliaia nel loro indotto.
Non è così: i duri scontri elettorali si giocano naturalmente su altri terreni meno impegnativi e insidiosi, vista la natura delle principali forze in campo tutte ferventi devote del fiscal compact e della difesa della proprietà privata, quest’ultima più che mai preservata dai successivi decreti del governo sull’Ilva, a dispetto del comportamento criminoso dei suoi padroni, a cui era stata vergognosamente regalata dallo stato stesso.
Da manuale poi il comportamento di Bersani e del suo responsabile economico, il sinistro Fassina, che mentre alzano leggermente i toni sul lavoro per accattare qualche voto in più, contemporaneamente si precipitano a farsi intervistare dal Washington Post e dal Financial Times, per rassicurare la borghesia internazionale, industriale e finanziaria che saranno rispettosi fino in fondo delle scelte liberiste dell’Unione europea che strangolano le classi lavoratrici del continente.
Ma proprio le vicende Fiat e Ilva renderebbero invece possibile una forte campagna per una nuova politica economica, un nuovo forte intervento industriale dello stato, di fronte alle evidenti incapacità e nefandezze padronali e al funzionamento del sistema capitalista. Anche solo una forte denuncia dei mali del capitalismo sarebbe un passo avanti, un elemento di reale politicizzazione di una classe lavoratrice schiacciata sotto il peso dell’offensiva padronale e confusa nell’individuare, prima ancora degli obiettivi rivendicativi, quali siano i suoi nemici. La lista Ingroia e le forze che lo sostengono dimostreranno o meno la loro vitalità dall’assunzione di questa tematica politica strategica.
La situazione del comparto auto in tutta l’Europa è disastrosa; è un settore che già prima dello svilupparsi della crisi economica conosceva forti tensioni, in un contesto di grandi sovracapacità produttive e di acuta concorrenza tra le case produttrici; l’approfondirsi della recessione, strettamente correlata alle politiche di austerità praticate in tutti i paesi del continente che hanno ridotto drasticamente il reddito di vastissimi settori della popolazione, non poteva che determinare il crollo delle vendite di un bene durevole costoso, come è il prodotto auto; ed in particolare questa caduta non poteva che manifestarsi nel settore dei modelli medio bassi, delle utilitarie, mettendo in difficoltà le aziende che li producono maggiormente, Fiat in testa, ma anche Renault e PSA (Peugeot) e la stessa Opel.
I dati sono impietosi. Dopo i dati assai negativi degli anni precedenti il mercato delle auto nel 2012 precipita dell’8,2%, cioè il maggior ribasso annuale dal 1993, con una domanda che si colloca al livello del 1995. Naturalmente come in tutti questi ultimi anni a fare peggio è la Fiat con un – 15,8% e, tra i diversi paesi, quelli maggiormente in discesa sono la Spagna (-13,4%) e l’Italia (-19,9), maggiormente colpiti dalla crisi (Grecia e Portogallo possono quasi essere considerati fuori classifica), ma anche la Francia (-13,9%), mentre la Germania limita a un -2,9% la contrazione delle immatricolazioni e la sola Inghilterra risulta in controtendenza con un contenuto incremento del 3,7%.
A pagare naturalmente sono i lavoratori. In Francia la PSA, già la scorsa estate, aveva annunciato migliaia di licenziamenti ed oggi anche la Renault propone una riduzione di personale di 7.500 unità su 54.000 addetti.
In questo quadro a dare il peggio di sé è ancora la Fiat e il suo amministratore delegato, molto bravo, come il più consumato degli odiati “politici”, ad esternare, a fare la vittima, a negare l’evidenza dei fatti, per giustificare il fallimento dei suoi marchi in Europa, ma soprattutto per costruire l’ennesima cortina fumogena sul Piano Fabbrica Italia, mai realmente esistito, che di congiuntura in congiuntura negativa, cambia volto e si nasconde dietro nuove promesse su siti produttivi, modelli, occupazione, in una girandola di parole che hanno il solo scopo di nascondere la realtà vera, quello della cassa integrazione, dei lavoratori a casa, della chiusura di fabbriche e della riduzione dei posti di lavoro.
Nel mese di dicembre la Fiat ha licenziato 1.450 operai della fabbrica di Tychy in Polonia, fabbrica fino a poco tempo fa considerata tra le più dinamiche, con i sindacati messi in ginocchio, obbligati a firmare l’accordo sui licenziamenti nel disperato tentativo di contrattarne almeno le modalità.
In Italia Marchionne ha chiuso tre fabbriche, Termini Imerese, Irisbus, Cnh Imola e quasi nessuno più ne parla. Non male.
Mirafiori lavora a singhiozzo ormai da anni senza nessuna certezza con i progetti di future produzioni modificati di volta in volta quando arriva la verifica delle precedenti promesse. Molti lavoratori non varcano i cancelli da mesi e quando li varcano è per lavorare due o tre giorni in un mese.
La nuova Pomigliano era una rilucente promessa: lavoro certo in cambio di un contratto di merda e di un supersfruttamento. Risultato finale: non solo sono esclusi dal rientro i lavoratori che appartengono alla Fiom e ai sindacati di base (e solo la magistratura prova in punta di diritto a farne rientrare qualcuno), ma quelli rientrati non sfuggono nuovamente a periodi di cig; infine, in questi giorni, i sindacati strapuntino firmano e “riconoscono” che per più di 2.000 lavoratori non ci sono “le condizioni oggettive” per rientrare in fabbrica; come esplicita il testo firmato “obbiettiva impossibilità di ulteriori incrementi di organico di fabbrica Italia Pomigliano”.
Infine piomba come un fulmine la cassa integrazione su quella che da tempo, per la sua modernità, è considerata la fabbrica trainante in Italia, Melfi; anche in questo sito viene annunciata una cassa integrazione per due anni (se pure per ora presentata a rotazione) per migliaia di lavoratori, in attesa delle riconversioni produttive del modello.
Sovente i giornali disegnano una cartina del mondo con le aziende della Fiat piazzate nei diversi paesi. Ed è così: un padrone che, con la cartina davanti, sulla base del mercato mondiale e degli interessi dei proprietari (e questi interessi ormai si sono cristallizzati nel nord America; non è la Fiat ad aver integrato la Chrysler, ma esattamente il contrario), muove le sue pedine, chiude, ristruttura, licenzia i poveri fanti, sposta le produzioni in base a considerazioni economiche e produttive, ma anche in base a considerazioni politiche, là dove i governi sono disposti a dare sempre di più all’azienda, dove i sindacati sono totalmente subordinati per garantire il supersfruttamento dei lavoratori. Naturalmente deve tener conto anche del comportamento degli operai, dei rapporti di forza che questi sono capaci di produrre. I lavoratori serbi sono riusciti ad ottenere consistenti aumenti salariali di fronte a una situazione produttiva assai favorevole, ma questo era avvenuto qualche anno fa anche in Polonia, salvo poi verificarsi un mutamento radicale della situazione.
Il dramma è che di fronte a questa possibilità e capacità del padrone di agire sovranazionalmente e di operare il “divide et impera” dei lavoratori non c’è uno straccio di coordinamento internazionale della classe lavoratrice e delle sue organizzazioni sindacali, i cui dirigenti hanno scelto consapevolmente o, nel migliore dei casi, pensando che non ce ne fosse la forza, di non mettere avanti la solidarietà, l’unità di un fronte operaio per fronteggiare l’attacco e le scelte padronali.
Per tornare in Italia, per sostenere le lavoratrici e i lavoratori sarebbe necessaria una vigorosa campagna delle forze della sinistra per rivendicare l’intervento pubblico, anzi la nazionalizzazione della Fiat e dell’Ilva perché non abbiamo paura di chiamare le cose col loro nome, incuranti che questo termine sia diventato un tabù, non solo e non soltanto per alcune esperienze passate di cattiva gestione delle aziende pubbliche, ma per la campagna ideologica che da decenni è stata fatta per magnificare la proprietà privata e denigrare qualsiasi ipotesi alternativa basata sulla “autogestione dei produttori”. Solo questa soluzione potrebbe dare risposte certe in termini di difesa dell’occupazione, riconversione delle produzioni, garanzie di rispetto ambientale e di salvaguardia dell’interesse collettivo. (Vedasi A proposito di nazionalizzazioni di A. Moscato)
Questa proposta viene avanzata da Sinistra Critica; la difende anche una organizzazione come il Pcl; ma servirebbero voci più forti: difficile che Vendola, anche se si reca a fare campagna elettorale a Melfi, si metta su questo terreno perché il suo obbiettivo è di assicurare un cospicuo numero di seggi per i suoi, realizzabile solo con la subalterna alleanza col PD; potrebbe farlo, se si impegnasse, ma chissà se ne ha il coraggio, Rifondazione. Sul piano sindacale sembra improbabile che Susanna Camusso, impegnata a sostenere il PD, si riconverta su questo terreno; ma potrebbe e dovrebbe farlo la Fiom, che anzi ne avrebbe la necessità. Se i suoi dirigenti nell’accesso ai media, che ancora è loro permesso, la avanzassero con forza, potrebbe diventare un tema nazionale.
La Fiom si è schierata con le scelte di difesa ambientale della magistratura tarantina e ha denunciato la drammatica situazione della Fiat (vedi la pagina: http://www.fiom.cgil.it/), chiedendo anche giustamente che il governo convochi un tavolo nazionale e che le forze politiche candidate al governo dicano cosa propongono per il futuro del settore automotive, ma la sua recente assemblea dei delegati ha avuto difficoltà ad identificare un percorso di lotta senza il quale è difficile che queste richieste possano avere risposta positiva e inoltre il suo gruppo dirigente ha respinto le proposte più pregnanti e stringenti della sua componente di sinistra.
Al di là di queste grandi difficoltà, difficoltà in primo luogo della condizione delle lavoratrici e dei lavoratori nelle diverse aziende del gruppo, sottoposti a un regime di sfruttamento infame e a non meno vergognosi ricatti, su cui nessun dirigente istituzionale e politico interviene e che sono anzi passati sotto silenzio, siamo anche convinti che la drammaticità delle prossime scadenze, riproporranno la necessità di un obiettivo che coniuga la difesa del lavoro con una rivendicazione più avanzata. Bisognerebbe però che la sinistra tutta, sindacale e politica con un’azione unitaria e coerente aiutasse i lavoratori a trovare il più rapidamente possibile la strada di nuovo protagonismo e la fiducia in se stessi e nella lotta.