Il dibattito attorno al salario minimo ha ripreso vigore. La decisione di fissarlo, per alcune categorie, a 3’000 franchi ha riaperto il dibattito sulla natura stessa delle misure di accompagnamento. Misure che oggi appaiono, alla luce di queste decisioni, non tanto misure tese ad impedire il dumping salariale, ma, più che altro, a sostenere il suo affermarsi.
Appare così sotto la sua vera luce, all’epoca delle diverse votazioni sfuggita ai più, il contenuto del dibattito sulla cosiddetta libera circolazione introdotta con gli accordi bilaterali. Ed appare l’effettiva realtà di questo processo: non un processo portatore di nuovi diritti fondamentali (quali, ad esempio, quello sacrosanto di ogni essere umano di potersi muovere liberamente); ma un vero e proprio processo di liberalizzazione del mercato del lavoro.
Un processo che aveva (ed ha) come obiettivo fondamentale quello di mettere sempre più in concorrenza lavoratori dei diversi paesi; una concorrenza il cui obiettivo, soprattutto in un quadro ormai permanente – è la realtà degli ultimi venti anni – di tensione sul mercato del lavoro, è quello di spingere verso il basso i livelli salariali e le condizioni di lavoro, raggiungendo in questo modo l’obiettivo di diminuire i costi salariali e portare soccorso al mantenimento di tassi di profitto soddisfacenti.
Chi avesse guardato al di fuori del nostro paese in questi ultimi anni, avrebbe visto come questo processo di messa in concorrenza abbia avuto ragione di movimenti operai organizzati ben più potenti di quello elvetico. In Germania, ad esempio, la liberalizzazione del mercato del lavoro ha di fatto destrutturato interi settori – come quelle edile – sul piano dei salari e delle condizioni di lavoro.
Anche nel nostro paese l’obiettivo degli accordi bilaterali e della conseguente liberalizzazione del mercato del lavoro è quello di destrutturare ulteriormente le condizioni di lavoro e, soprattutto, di rendere i nostri livelli salariali sempre più “compatibili” e “concorrenti” con quelli di altri paesi.
In questa prospettiva la fissazione di salari minimi di 3’000 franchi risponde pienamente a questo obiettivo, con il vantaggio di offrire l’immagine di un salario che “protegge” dagli abusi. È attorno a questa assoluta ipocrisia che si sta, ancora una volta, celebrando una sorta di «unione nazionale» come già era avvenuto in occasione delle diverse votazioni sui bilaterali. Con la differenza che questa volta, e non poteva che essere così, a dichiararsi d’accordo vi è anche la destra leghista che, ancora una volta, mostra quale sia il suo vero «volto sociale».
Fissare salari minimi a 3’000 franchi significa spingere tutta la dinamica salariale verso il basso: che altro non è che il meccanismo denominato dumping salariale. È evidente, ed il caso della vendita è lì a dimostrarlo in modo chiaro, che la grande distanza esistente tra questo minimo legale (valido per tutti, non solo, come spesso si equivoca, per i lavoratori frontalieri) e i salari mediamente versati spingerà questi ultimi a rapportarsi sempre di più verso questo limiti inferiore.
Dal punto di vista sindacale ci pare che il sostegno a questa decisione, in particolare nel settore della vendita, rappresenti un vero e proprio autogoal. È evidente che, visto questo nuovo elemento, al padronato non converrà più nemmeno mettersi a discutere su un’ipotesi di contratto collettivo di lavoro per il settore della vendita. Chi sarebbe così sciocco da mettersi a negoziare un contratto collettivo la cui stipulazione quasi per forza dovrebbe rimettere in discussione livelli salariali così bassi. In questo senso appare significativo il fatto che le associazioni padronali del commercio non abbiano intenzione di ricorrere contro questo contratto. Non sono mica scemi!