La rinuncia del papa ha colpito l’opinione pubblica in tutto il mondo per alcune fondate ragioni.
La prima è che accade raramente che una persona alla testa di uno Stato o di una struttura economica e politica, o culturale o religiosa (e la Chiesa cattolica ha un po’ di tutte queste caratteristiche) scelga di ritirarsi spontaneamente anche senza che ci sia un impedimento dirimente. Non occorre fare esempi, ne conosciamo troppi. Perfino nel piccolo e miserabile ambiente della politica italiana, ci sono voluti i rumori non troppo lontani di una possibile sommossa per costringere al ritiro personaggi men che mediocri che occupavano la scena da decenni.
In questo caso la decisione di Joseph Ratzinger però colpisce anche perché contraddice la pretesa di ogni papa di essere – in quanto “successore di Pietro” – un portavoce di Dio, sancita con il dogma dell’infallibilità pontificia, dogma che è stato ribadito nuovamente dagli ultimi due papi dopo che era stato di fatto messo in dubbio da Giovanni XXIII affidando a un Concilio il compito di rinnovare la Chiesa in crisi. Ovviamente il timore che la riduzione delle sue energie fisiche e intellettuali renda più difficile il compito del papa, mette implicitamente in dubbio la sua natura di infallibile portavoce divino. E che Dio non intervenga sempre a evitare guai, Ratzinger lo aveva detto ad Auschwitz domandandosi con amarezza dove guardava Dio al momento di quell’orrore…
In ogni caso il papa ha deciso di scendere dal soglio e rivendicare il suo diritto ad essere uomo, a chiudersi in un ritiro a studiare, ascoltare o suonare Bach e accarezzare la sua gattina, annunciandolo in circostanze che non lasciavano la possibilità di ostacolarlo. Lo ha fatto dopo un pontificato che non ha conosciuto trionfi, ma tante amarezze. Pesava la sua incapacità di arrestare la piaga della pedofilia e delle tante complicità di cui ha goduto; l’emergere con Vatileaks di un clima di conflitti fratricidi nella Curia di cui il maggiordomo era stato solo una pedina; l’impossibilità di mettere ordine nel letamaio dello IOR, intrecciato a tanti scandali finanziari, ma anche a non pochi delitti e a evidenti collegamenti con la malavita organizzata (rivelati anche dalla sepoltura nella basilica di Sant’Apollinare concessa a un “benefattore” che in realtà era un gangster caduto in un conflitto a fuoco).
Che a questo gesto pensasse da tempo, lo si intuisce da alcuni segnali: il più sorprendente fu nel 2009 la visita, nella basilica di Collemaggio all’Aquila, alla tomba del suo fondatore, Pietro da Morrone, che fu per pochi mesi papa Celestino V, e fu infamato come colui che “fece per viltade il gran rifiuto” da Dante, che non gli perdonava di aver aperto incautamente con le sue dimissioni la strada all’infame Bonifacio VIII. In quella occasione Benedetto XVI fece un gesto imprevisto che rivelava un’insolita identificazione: si spogliò del suo Pallio, che per il papa ha una foggia diversa da quella usata da altri ecclesiastici, e lo depose sul sarcofago di quel lontano predecessore.
Un uomo che lo conosce bene, il teologo Hans Küng, che aveva inizialmente chiamato Ratzinger a insegnare nella sua Facoltà di teologia cattolica a Tubinga, ha espresso in modo garbato la sua simpatia per questo atto “quasi rivoluzionario e secolare”, come se il papa fosse “un semplice Presidente della Repubblica o un rappresentante del mondo politico”, ma senza nascondere il suo giudizio implicito nella frase: “Incredibile. Non me lo sarei mai aspettato da lui”. E in un altro passo dell’intervista rilasciata al Messaggero Küng precisa che non avrebbe mai immaginato “che questo papa riuscisse un giorno a sorprendermi in maniera positiva”.
Ma aggiunge anche che è presto per dire “fino a che punto il Pontefice è consapevole degli effetti e delle conseguenze della sua scelta. Ora bisogna sperare che Joseph Ratzinger non eserciti troppa influenza sulla scelta del suo successore”. Già, perché la simpatia e comprensione per la dimensione umana di queste dimissioni, non può far dimenticare chi era questo papa mediocre e retrogrado, che solo un Enrico Letta può scambiare per un “rivoluzionario”.
Prima di decidersi a lasciare il campo, Ratzinger aveva tentato di fronteggiare senza successo una crisi profonda di cui stentava a comprendere le ragioni, a che aveva tentato di arginare con un notevole numero di nomine di nuovi cardinali tutti fedelissimi alle sue idee reazionarie sul piano teologico e politico (oltre che sulla famiglia, sulla libertà sessuale e i diritti della donna), e che si sono concretizzate anche in aperture ai seguaci negazionisti di mons. Lefebvre. “Sarà quindi difficile trovare proprio tra di loro la persona giusta che sia in grado di far uscire la Chiesa cattolica dalla sua complessa e profonda crisi che sta vivendo da ormai molti anni e che non è stata provocata e inasprita solo da Benedetto XVI, ma anche dal suo predecessore”, osserva il lucidissimo Küng, che aveva rinfrescato la sua conoscenza di Ratzinger accettando poco dopo la sua elezione, nel settembre 2005, un suo invito a Castelgandolfo per un colloquio di quattro ore, svoltosi in un clima “amichevole e di reciproco rispetto”, ma sostanzialmente inconcludente.
Come al momento dei Mondiali di calcio milioni di italiani si trasformano in allenatori e pontificano su cosa si sarebbe dovuto fare nelle partite perse, così ora giornali e Talk-show si sbizzarriscono nelle previsioni sul continente di provenienza e sull’età del futuro papa. Operazione quanto mai avventata, a meno che non si limiti a considerazioni banali sull’utilità di competere con l’Islam con un papa africano o asiatico, o di recuperare il terreno perso in America Latina dopo lo guerra condotta verso la teologia della liberazione scegliendo un papa di quel continente. Possibilmente giovane, cioè almeno sessantenne, dicono tutti, più o meno come Woitila che ne aveva 58, ma dimenticando che almeno Roncalli, che pure ebbe un ruolo fondamentale nell’arginare il declino della Chiesa, era stato eletto quando di anni ne aveva già 77, e non preannunciava con la sua carriera precedente la svolta radicale che avrebbe avviato, e che i successori hanno dovuto faticare a contenere e poi a bloccare.
Sarebbe bene ricordare che la Chiesa cattolica, nonostante la sua crisi, ha comunque una direzione collettiva efficiente e basata su una rete di osservatori presenti praticamente in ogni paese del mondo. Ma ha anche una capacità di riflettere collettivamente e di scegliere i suoi vertici in base a criteri lungimiranti di efficienza. Per questo in un momento cruciale per l’Europa aveva scelto un papa polacco, cioè proveniente dall’unica area del mondo in cui, come sottoprodotto indiretto della profonda crisi endogena del “socialismo reale”, la Chiesa cattolica non era in crisi ma aveva acquistato una forza che non aveva mai avuto in passato. [Un bilancio critico del pontificato di Giovanni Paolo II, era apparso sul numero 15 del 2005 di ERRE, ora ripreso sul mio sito all’interno del Dossier: Il “papa della pace”? ]
Ma ora? In quale area si aprono possibilità di arginare il declino? E come affrontare la piaga anacronistica dello strapotere della Curia, se ogni decisione dipende dallo schieramento di tanti cardinali scelti da Ratzinger, che proprio su questo terreno ha fatto un clamoroso fallimento?
Comunque non ci interessa di fare previsioni, tanto più che ci sarà poco da aspettare, tanto minuziosamente è stata studiata da Ratzinger la tempistica delle sue dimissioni, e della transizione.
Non mi sembra neppure verosimile quello che molti commentatori temono (e che ovviamente non mi interessa molto), ossia un possibile dualismo tra il nuovo papa e quello in pensione. Non tanto perché immagino che dopo tante tempeste attraversate, Ratzinger desideri davvero la tranquillità e il distacco dai problemi che l’hanno logorato, ma anche perché non dimentica che come è avvenuto tante volte in passato ci sarebbe chi non esiterebbe ad accelerare il suo passaggio a miglior vita se provasse a sconfinare dal suo ritiro.
Non si tratta di pensare solo ai tanti esempi lontani. In epoca recente, in cui Joseph Ratzinger era già cardinale, ci fu la morte improvvisa dopo appena 33 giorni di pontificato, del papa Giovanni Paolo I, Albino Luciani. Circolarono molte voci che ne attribuirono la morte improvvisa alla necessità di eliminare un papa imprevedibile, sia per alcune singolari e simpatiche affermazioni teologiche (“Dio è mamma”, aveva detto tra l’altro), sia perché forse era stato turbato da qualcosa che, arrivato a quel livello, aveva dovuto conoscere. Io non avevo accettato allora quella tesi, che era condivisa invece dal mio maestro e grande amico Ambrogio Donini, e pensavo fosse casomai logico che il peso di responsabilità troppo grandi per le sue spalle e per la sua morale, avesse schiantato con un infarto un uomo semplice e ingenuo. Ho saputo poi che la tesi della morte non naturale, ma perlomeno accelerata da qualche farmaco “sbagliato”, ha continuato a circolare, sostenuta da indizi sospetti, e ho saputo che era condivisa anche da un ecclesiastico autorevole e rispettabile.
Per chi vuole sbizzarrirsi su questo tema, rinvio al discutibile ma documentato: http://it.wikipedia.org/wiki/Teorie_sulla_morte_di_Giovanni_Paolo_I#La_tesi_del_libro-inchiesta_di_David_Yallop
Naturalmente continuo a non avere certezze in proposito, ma non è difficile immaginare che in un ambiente collegato a affari scandalosi, e che è stato associato perlomeno agli omicidi di Calvi, di Ambrosoli, e alla sparizione di Emanuela Orlandi, ecc., non sarebbe difficile trovare chi mette a tacere una voce scomoda.
In realtà c’è invece un caso recente di due “papi” che convivono bene senza conflitti dopo che uno di loro ha dovuto ritirarsi per ragioni di salute: è a Cuba, dove Fidel ha lasciato la carica al fratello, ma ha poi recuperato le energie e ha ricominciato a “pontificare” nelle sue Reflexiones del compaňero Fidel. Ma ha evitato sempre di entrare in polemica col governo, anche quando venivano prese misure che aveva sempre osteggiato quando era il líder máximo.
A proposito di Cuba, c’è invece un altro aspetto da segnalare: le dimissioni spontanee di Benedetto XVI possono assicurare alla gerarchia cattolica locale una popolarità maggiore di quella che si era conquistata durante l’ultima visita di questo scialbo papa, iniziata con un volgare e grossolano attacco al marxismo. Dipende naturalmente da chi verrà eletto al suo posto, e dalla sua età, infatti, se la gerarchia cattolica cubana potrà usare come arma polemica la capacità di rinnovamento della Chiesa, contrapponendola alla immobile gerontocrazia del Buró Político.
Ma non sarà risolutivo. La Chiesa cattolica cubana rimane minoritaria,e anche se ha potuto aumentare di 400 unità il numero dei preti che operano nell’isola, questi sono quasi tutti stranieri. Difficile quindi che a breve scadenza si realizzi il sogno di Woitila, e che la gerarchia cattolica erediti il potere dalla indebolita burocrazia al potere. Sarebbe comunque tutt’altro che auspicabile una “transizione verso la democrazia” basata sull’intesa e la collaborazione tra due concezioni che sono ugualmente autoritarie: come pochi ricordano, in una sinistra che ha spesso abbandonato il materialismo e la distinzione tra il sentimento religioso, che può essere a volte anche progressista e perfino rivoluzionario, e le istituzioni ecclesiastiche di tutte le religioni, che sono sempre un fattore fondamentale di conservazione da denunciare e combattere.
* tratto da http://antoniomoscato.altervista.org