A prevalere ormai, nell’orientamento dei Verdi, è la ricerca della massima compatibilità con il sistema, le sue regole, le sue prospettive. Se fino a qualche anno fa i Verdi, non solo quelli ticinesi, predicavano la trasformazione del sistema introducendo una logica ambientale ad una logica del capitale, oggi di tutto questo è rimasto ben poco.
Nemmeno le teorizzazioni di un cosiddetto “capitalismo verde” trovano ormai spazio tra i Verdi. Dappertutto, basti pensare alla Francia o alla Germania, li vediamo intenti a costruire una loro immagine di alleati portatori di preoccupazioni “moderne” delle forze social-liberali.
Si tratta tuttavia di una dinamica che sta mostrando i propri limiti. Persino in Svizzera i Verdi hanno dovuto subire una battuta d’arresto (ed una crisi) dovuta proprio alla loro “organicità” al PSS che, intelligentemente, negli ultimi anni ha cavalcato i temi ambientali, tagliando un po’ l’erba sotto i piedi ai cugini Verdi. Da qui la necessità di alcuni settori di demarcarsi apertamente “a destra”, comprendendo che la crisi dei partiti maggiori libera spazio per un’alternativa verde, ma sempre più liberale.
Il Ticino, contrariamente a quanto si pensa, non è diverso dal resto della Svizzera. Le dinamiche di fondo, seppur calate nelle forme e nella realtà cantonali, sono le stesse. Così, di fronte ad una crisi della Lega ormai in marcia da qualche tempo (e che verrà solo accelerata dalla morte di Bignasca), è evidente che si aprono spazi per la conquista futura di questo elettorato. Di una parte ben s’intende, quella che non andrà all’UDC né tornerà nell’alveo dei partiti tradizionali.
Il partito di Savoia si sta preparando da tempo in questa prospettiva e la proposta di iniziativa contro il dumping si muove (lo ha ammesso lo stesso Savoia) in questa direzione. E lo fa con un metodo che potremmo definire (lo diciamo non in senso spregiativo) tipicamente leghista.
Da un lato cavalca un tema caro alla Lega, quello della lotta contro le conseguenze dei bilaterali; dall’altro proponendo soluzioni apparentemente efficaci ma non tali nella realtà concreta. Pensare che un’iniziativa sul salario minimo come quella approvata nel Giura sia uno strumento contro il dumping significa ingannare i salariati di questo paese.
Naturalmente i Verdi hanno tutto il diritto di fare le loro svolte e di cavalcare i temi che meglio aggradano loro. Ma queste loro scelte devono perlomeno far riflettere a quanto poco senso abbiano (ammesso e non concesso che lo abbiano mai avuto) formule del tipo “fronte rosso – verde”, “alleanza rosso -verde”, ecc. Alleanze che ormai non hanno quasi più nulla né di rosso, né di verde.
Ma cosa hanno approvato nel Canton Giura?
Val la pena ridcordare che tra tutte le iniziative cantonali presentate in Svizzera in questi ultimi anni quella accolta nel Canton Giura è sicuramente la peggiore, la più moderata, quella che rischia di avere effetti non solo nulli sulla realtà salariale, ma, forse, anche di permetterne un peggioramento.
Infatti l’iniziativa prevede che sia creata la base legale per istituire un salario minimo “in tutte le aziende e in tutti i settori” del cantone. Questo salario sarà calcolato come percentuale (si fa l’esempio del 65%) del salario mediano nazionale per il settore. Questi salari minimi, tuttavia, non sono applicati se in un settore vige un salario minimo fissato in un CCL e decretato di obbligatorietà generale (cioè valido per tutti) oppure se l’impresa aderisce ad un CCL che fissa un salario minimo. In entrambi questi casi il salario può essere evidentemente inferiore (!) a quello teoricamente fissato in percento del salario medio nazionale! Soprattutto la mancanza di una clausola che impedisca questo ultimo aspetto (presente, ad esempio, nell’iniziativa nazionale dell’USS) rende di fatto i salari minimi “aggirabili” da accordi contrattuali “bidone”, aprendo la strada ad una sorta di corporativismo di stato di infausta memoria.
Le iniziative presentate hanno tutte la stessa caratteristica: quella di non fissare alcun salario concreto (alcune – come quella Ginevrina – si limitavano a proporre l’introduzione del principio costituzionale di poter fissare dei salari minimi). Da qui una certa pericolosità, se così possiamo dire: i rapporti di forza attuali sono tali che, se le maggioranze parlamentari cantonali legiferano, in realtà rischiano di fissare salari molto più bassi dei salari medi e di quelli mediani. Il che rischia di spingere verso il basso i salari effettivi: cioè di diventare strumenti di dumping salariale.
Ricordiamo che nel canton Vaud l’iniziativa popolare è stata respinta, seppur priva di qualsiasi indicazione concreta sul salario. Stessa sorte, poco tempo fa, anche a Ginevra. Miglior fortuna nel canton Neuchàtel. Del Giura si è detto. Resta ancora aperta la questione vallesana.
L’unico cantone nel quale non abbiamo votato è il Ticino. E pour cause. L’iniziativa popolare depositata dall’MPS rompeva con questa visione (in realtà la anticipava, essendo stata lanciata come prima assoluta in Svizzera). Proponeva, concretamente, un salario di 4’000 franchi mensili, per 13 mensilità, calcolata su un orario settimanale di 40 ore. Una logica, ed un livello di proposta, radicalmente diverso da tutte le altre. Quasi normale che il Gran Consiglio ticinese l’abbia considerata irricevibile, impedendo ai ticinesi di esprimersi.
A livello nazionale il destino dell’iniziativa USS è già segnato. Non riuscirà ad andare oltre un onesto 35%. Non siamo degli indovini, ma abbiamo a più riprese segnalato i limiti di questa iniziativa. Che si condanna al fallimento proprio a causa della sua moderazione. Chiedere 4’000 franchi a livello nazionale è come fare un’iniziativa in Ticino che ne chiedesse 3’000. I salariati non solo troverebbero questo limite eccessivamente basso (se un salario deve, prima di tutto, permettere di vivere dignitosamente), ma lo vedrebbero – soprattutto quelli con salari più alti – come una calamita, verso il basso, per i loro salari. È quanto succederà nelle grandi agglomerazioni urbane della Svizzera: un fatto che condanna l’iniziativa. Alla quale poi non giova l’orientamento con il quale le organizzazioni sindacali si accingono a far campagna: quello di considerare questa proposta una sorta di “minimo sociale”, per il 10% dei lavoratori più poveri, complementare alla politica contrattuale che deve continuare ad essere l’elemento centrale e determinante della politica salariale. Una strada verso il disastro.
D’altronde il fatto che in due grossi cantoni assai orientati a “sinistra” (Vaud e Ginevra)le iniziative – seppur moderate e non operative – non siano passate lascia facilmente prevedere quale potrà essere il risultato a livello nazionale.
Verdi e DFE: stessa lotta verso il basso?
Un esempio concreto, adattato al Ticino e basato sul “modello Giura” – con tutti i limiti del caso, visto che nemmeno nel Giura si è comunque passati alla pratica concreta, se mai si passerà…
Non vi sono dubbi che uno dei settori più sotto pressione, rispetto all’avanzate del dumping salariale, sia quello della vendita. Una pressione che ha spinto il DFE, su proposta della commissione tripartita, a legiferare, nel quadro delle misure di accompagnamento, fissando
Cosa succederebbe se in Ticino vigesse una legislazione come quella che i cittadini del Giura hanno approvato?
Purtroppo, assolutamente nulla. Addirittura, forse, le cose sarebbe peggiori.
Infatti l’iniziativa del Giura indica la necessità di legiferare laddove non vi sono CCL che regolano i salari, siano essi di obbligatorietà generale o siano essi semplicemente conclusi tra le parti e validi per le parti contraenti.
In Ticino abbiamo un CCL firmato dalla DISTI e da alcuni sindacati che prevede i seguenti salari minimi:
– non qualificato Fr. 3’000
– venditore/assistente 3’210 (con tirocinio biennale) Fr. 3’210
– impiegato di vendita (con tirocinio triennale) Fr. 3’410
Sono gli stessi salari che ha fissato il DFE nel suo decreto con il quale ha reso obbligatori questi salari minimi per tutti le aziende del settore della vendita con meno di 10 dipendenti…
E come la mettiamo con la clausola (utilizzabile solo nel caso in cui si dovesse fissare un salario vista l’inesistenza di contratti collettivi di lavoro) che prevede la fissazione in percentuali del salario mediano del settore?
Qui le cose potrebbero mettersi anche peggio, qualora fosse il Parlamento a dover decidere. Infatti il salario mediano (nazionale) nel settore della vendita era (2010) di 4’471 franchi mensili. Se prendessimo l’esempio citato nel testo votato nel Giura (65%) avremmo un salario minimo di 2’950 franchi. La percentuale non è né casuale, né pellegrina, perché molti testi legislativi in materia si riferiscono proprio ai 2/3 del salario mediano come limite di riferimento per fissare salari che non siano sotto il livello di povertà. Naturalmente si può pensare che il nostro Parlamento faccia molto meglio. Non è vietato, e non costa nulla, pensarlo…
In questo caso Savoia e soci riuscirebbero a fare peggio di Laura Sadis…E ce ne vuole!
Lo stesso ragionamento si potrebbe fare per un altro settore, altrettanto importante per l’economica ticinese e in odore di dumping da diverso tempo, è tutto il settore degli impiegati di commercio. Anche qui esiste un CCL sottoscritto dalla Camera di Commercio e da alcuni sindacati. Anche qui il salario di base iniziale (per- impiegati con formazione di base triennale) è di CHF 41’340.- (CHF 3’180.- mensili per 13). Sicuramente questo salario verrà utilizzato dal DFE per stabilire il prossimo salario minimo nell’ambito dei contratti normali.
Anche qui, una legislazione alla giurassiana non permetterebbe di cambiare proprio nulla.
Due casi in cui l’attuale legislazione (e quella futura sulla base di un’iniziativa che riprendesse le disposizioni votate nel Giura) non porterebbe alcun miglioramento rispetto alla situazione attuale. Sarebbero, cioè, ben lontane dal portare strumenti per combattere il dumping salariale. Porterebbero, forse, qualche voto ai Verdi.