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consumerism2[Il mercato] ha raramente a che fare con la scelta o la libertà, poiché tutto viene deciso in anticipo per noi, che si tratti dei nuovi modelli di automobile, dei giocattoli o dei programmi televisivi: certo una scelta la facciamo, ma non si può dire che si abbia voce in capitolo. Fredric Jameson [1].

 

Di fronte ad un nuovo disastro ecologico troviamo sempre qualcuno pronto ad affermare che è colpa dei consumatori.

Quando nel 1989 il supertank Exxon Valdes versò in mare 11 milioni di galloni di greggio [42.000 m³ ed inquinato ca 1.900 km di coste], Greepeace pubblicò un comunicato con una foto del capitano con questo titolo: “La fuoriuscita di petrolio in Alaska non è colpa del capitano, ma vostra”. Il tsto così continuava: “È troppo facile addossare la responsabilià del disastro della Valdes a una sola persona. O ad una sola compagnia. Oppure a una sola industria. Veramente troppo facile. Perchè la verità è che la catastrofe è stata causata da una nazione assetata di petrolio.” [2].

Nel commentare il disastro petrolifero di BP del 2010 nel Golfo del Messico, il quotidiano inglese The Guardian pubblicò un articolo intitolato: “Siamo noi i responsabili della fuoriuscita di petrolio”. E continuava:“In ultima analisi, e forse è l’aspetto più importante, non dobbiamo considerare solamente la responsabilità dei produttori di petrolio, ma anche quella dei consumatori. La finanza e le imprese non agiscono indipendentemente dalle nostre scelte. Le compagnie come BP non possono far altro che quel che fanno perché noi vogliamo quello che vendono. Non siamo forse contenti quando il petrolio è a buon mercato?[….] Noi consumatori continuiamo a dipendere in molti modi dal petrolio. Contribuiamo dunque a mantenere un sistema assetato di petrolio che viene prodotto da compagnie petrolifere che trivellano in acque profonde e che intraprendono altre attività rischiose.”[3]

Potremmo citare altri numerosi esempi che sviluppano, tutti, questa lezione semplice: se solamente “noi” volessimo utilizzare meno petrolio, allora “loro” non andrebbero a trivellare in zone ambientali sensibili come il Golfo del Messico.

Questi concetti si fondano implicitamente sull’ipotesi secondo la quale le imprese – ed anche l’economia capitalista nel suo insieme – siano guidate dalle scelte e dai bisogni dei consumatori, così come si manifestano sul mercato. L’economista Mark Perry, del “think tank” di destra, American Entreprise Institute, spiega: “I consumatori sono i re e le regine di un’economia di mercato. Esercitano, in ultima istanza, una sovranità totale sulle imprese e sui loro dipendenti[…]. In sostanza, in un’economia di mercato, sono i consumatori e non le imprese a prendere tutte le decisioni. Sulla piazza del mercato i consumatori, spendendo i loro soldi, decidono quali sono i prodotti, i servizi e le industrie che devono sopravvivere e quelle che soccomberanno” [4].

Questo concetto, chiamato sovranità del consumatore [da cui la teoria del “cliente re”], è condiviso largamento non solo dagli economisti conservatori, ma anche da commentatori di numerose tendenze politiche. In effetti si tratta di uno dei concetti fondamentali della teoria economica dominante: “L’idea della sovranità del consumatore è di capitale importanza per la teoria economica neoclassica: è la pietra miliare sulla quale si basa l’intera struttura dei consumi e della produzione. Implica il principio fondamentale dell’economia neoclassica: essere coscienti che lo scopo di ogni attività economica sia di soddisfare i bisogni dei consumatori. La produzione è il mezzo, il consumo il fine […] Essere sovrani significa disporre di un potere esclusivo. L’idea della sovranità del consumatore ritiene che, in ambito economico, il consumatore detenga il potere esclusivo di decidere cosa, quanto e come i beni vengano prodotti e distribuiti. Verrebberoprodotte solamente quelle merci che i consumatori desiderano; le quantità è determinata solo dal numero di consumatori che le vogliono. [5]”

Il concetto di sovranità del consumatore, anche se esplicitato raramente, è la chiave di volta di ogni spiegazione popolazionista della crisi ecologica. In quanto consumatori, otteniamo tutto ciò che vogliamo attraverso un mercato pronto a soddisfare i nostri bisogni. Distruggiamo l’ambiente perchè vogliamo un numero troppo grande di oggetti nocivi. Se le foreste sono disboscate è perchè i consumatori vogliono troppi prodotti fabbricati con il legno o prodotti che cresceranno là dove c’erano le foreste. Se le compagnie petrolifere distruggono gli ecosistemi è solo perché i consumatori vogliono più carburante.

Questa è la ragione per cui, nelle pubblicazioni popolazioniste, le imprese sono menzionate raramente: i produttori di un numero sempre crescente di beni non fanno altro che soddisfare la domanda dei consumatori.

Se questo è vero, se ne deduce che l’insieme di un sistema molto inquinante è il prodotto di decisioni prese dai consumatori. Non rimangono a questo punto che tre possibili opzioni: ridurre il numero dei consumatori, persuadere i consumatori a consumare di meno, o entrambe le possibilità.

 

Il mercato manipolato

 

L’idea della sovranità del consumatore si fonda sull’idea assurda che i produttori e i distributori attendano semplicemente che esprimiamo i nostri desideri per soddisfarli con solerzia. Nella teoria economica dominante, il ruolo essenziale del marketing e della pubblicità per il funzionamento delle imprese esisterebbe solo per informarci sul ventaglio delle scelte possibili che ci permettono di soddisfare i nostri genuini desideri.

Scrive l’ecosocialista Michael Löwy: “Contrariamente a ciò che pretende l’ideologia del mercato non è la domanda che determina l’offerta; ma sono le imprese capitaliste che molto spesso creano il mercato per i loro prodotti, con diversi metodi di marketing, con la manipolazione pubblicitaria e con la scadenza programmata dei prodotti. La pubblicità gioca un ruolo essenziale nella domanda in un’ottica di consumo, inventando falsi “bisogni” e stimolando abitudini al consumo compulsivo.” [6]

Più di mezzo secolo fa, l’economista liberale John Kenneth Galbraith ha scritto in The Affluent Society, [1958. trad. it. Di Giorgio Badiali e Sergio Cotta, Economia e benessere, Ed. Di Comunità, Milano, 1959; poi come La società opulenta, ivi, 1963; Boringhieri, Torino, 1969], che la teoria della sovranità del consumatore ignora il fatto che la “funzione centrale” della pubblicità e del marketing è di “far nascere bisogni che non esistevano prima”. Lungi dal rispondere semplicemente ai desideri del consumatore, il marketing “crea bisogni che cerca di soddisfare”.

Galbraith scrive che ciò è considerato: “come un concetto elementare anche dallo studente meno brillante di qualsiasi scuola per la formazione di quadri aziendali della nazione più arretrata”. Solo gli economisti rifiutano di capirlo: “Hanno chiuso gli occhi (e le orecchie) sul fenomeno economico più invasivo: cioè la creazione moderna dei bisogni”[7].

Galbraith ha approfondito più tardi, nel The New Industrial State [1967,trad. it. Di Pierluigi Ciocca e Giacomo Costa, Il nuovo stato industriale, Einaudi, Torino, 1968] l’importanza vitale del marketing – che chiama il condizionamento della domanda – per il capitalismo moderno: “Infatti, il controllo, o, se si preferisce, il condizionamento della domanda, costituisce di per sé una vasta industria che si sviluppa rapidamente. Abbraccia una enorme rete di comunicazioni, un grande dispiegamento di organizzazioni commerciali e di vendita, la quasi totalità dell’industria pubblicitaria, numerose attività ausiliarie: ricerca, formazione professionale ed istituzioni connesse, e l’elenco non finisce qui. Nel linguaggio quotidiano, di questa grande macchina, come anche delle elevate e varie competenze che impiega, si dice che la sua funzione è quella di vendere merci. Per dirlo in modo più chiaro, la sua funzione è di condizionare il compratore”[8].

Pretendere che tutti questi sforzi non abbiano effetto sugli acquirenti, scrive ancora Galbraith, vorrebbe dire che l’industria spreca coscientemente miliardi di dollari, aumenta i prezzi e diminuisce i profitti, senza scopo alcuno. Questa idea non ha senso.

Galbraith afferma che anche se la pubblicità non riesce a convincere qualcuno ad acquistare un prodotto specifico, realizza una funzione più generale in nome di tutto il sistema: “L’azione di condizionamento gioca un ruolo ulteriore. Sottoponendo la domanda ad un controllo serrato, fa una propaganda incessante a favore dei prodotti in generale. Dalle prime ore del mattino alle ultime della sera, la gente viene informata su quel che può attendersi dai prodotti, e su tutto ciò che li rende indispensabili […]”La conseguenza è che se i prodotti abbondano sempre più, la loro importanza non sembra diminuire. Al contrario, bisogna fare uno sforzo di volontà per immaginare che esista qualcosaltro che abbia la medesima importanza. Moralmente,ammettiamo che abbondanza di beni non è sinonimo di soddisfazione umana; in pratica, non dubitiamo che la si consideri come tale” [9]

Michel Dawson, nel suo libro The Consumer Trap (La trappola del consumatore) afferma che la pubblicità deve essere percepita come un frammento di un insieme più ampio in un processo di marketing destinato a quelle “abitudini al di fuori dell’attività professionale del comune mortale che servono meglio gli obiettivi di base delle imprese”: “Attualmente, le grandi imprese degli Stati Uniti consacrano molto più di un miliardo di dollari l’anno per il marketing. Ciò rappresenta il doppio delle spese totali che gli Stati Uniti devolvono all’educazione – privata e pubblica – dagli asili d’infanzia alle università. Significa circa quattro mila dollari l’anno per ogni uomo, donna e bambino di questo paese”

Dawson definisce questo processo una spece di “lotta di classe dall’alto”: “Da parte nostra, in questa lotta e nei limiti più ampi (dobbiamo, per esempio, mangiare, bere e dormire), abbiamo il potere di scegliere quello che vogliamo fare del nostro tempo libero e ci battiamo per renderlo il più soddisfacente possibile. Parallelamente, le grandi imprese hanno il potere di disseminare oggetti, immagini, messaggi ed infrastrutture materiali, nei parametri del nostro tempo al di fuori del lavoro. In un certo qual modo influenzano le scelte che facciamo nelle nostre vite private” [10]

Non si tratta di lasciar intendere che siamo solamente delle vittime alla mercè dei mostri super-potenti del marketing. Per alcuni individui è pur sempre possibile rifiutare di essere influenzati dai procedimenti del marketing o anche di abbandonare completamente il sistema che lo serve. Queste azioni, come afferma Galbraith, influiscono poco sul sistema in quanto tale, perché il condizionamento della domanda ha la funzione di influenzare non il compratore individuale, ma la massa, l’insieme di un potenziale mercato: “Ogni individuo dotato di volontà e di determinazine può sottrarsi a questa azione. A questo punto, non si tratta di trovare un metodo particolare per portarlo ad acquistare un prodotto qualunque. Coloro che protesteranno si sentiranno rispondere: “Libero di non farlo!”. Ma è minimo il rischio di vedere gente affermare la loro personalità in numero sufficiente per influenzare il condizionamento dei comportamenti di massa” [11]

Spesso gli acquirenti riescono a   resistere alla manipolazione e succede che alcune campagne pubblicitarie specifiche falliscono. Spendendo annualmente un miliardo di dollari in marketing, le imprese non si limitano a promuovere un certo tipo di prodotti: definiscono anche i termini per far funzionare il mercato, stabiliscono la vastità della scelte possibili e promuovono un’espansione costante dei bisogni e degli acquisti dai quali traggono i loro profitti. Non spenderebbero così tanto denaro se tutto ciò non funzionasse.

 

Mascherare i fatti

 

L’idea della sovranità del consumatore è insita anche nell’ipotesi secondo la quale i consumatori dispongono di tutte le informazioni pertinenti sui prodotti che desiderano comperare, per essere in grado di fare acquisti razionali e informati.

Si tratta di un’assurdità. Ogni segmento del mercato capitalista è caratterizzato da una “asimmetria delle informazioni”. I venditori dispongono di informazioni molto maggiori che non i compratori. Anche se gli economisti lo ammettono raramente, i venditori dissimulano di continuo alcune informazioni.

Per esempio, negli Stati Uniti, durante la Seconda guerra mondiale, il controllo dei prezzi ha spinto le imprese ad alterare i prodotti alimentari con lo scopo di mantenere profitti elevati. Mentre le associazioni dei consumatori conducevano una campagna per un sistema semplice di indicazione della qualità (A-B-C) che permettesse un confronto tra i prodotti   alimentari in conserva, la National Canners Association le ha accusate di condurre una “guerra” contro le marche “mettendo in pericolo il nostro sistema di imprenditoria privata”. Il Congresso ha dovuto varare una legge per proibire l’obbligo di un sistema di identificazione di questo tipo. [12]

Il settore agro-alimentare dell’America del Nord è riuscito recentemente a bloccare le richieste di dichiarazione obbligatoria degli alimenti geneticamente modificati. Qualsiasi siano le opinioni per quanto riguarda gli alimenti geneticamente modificati, è certo che i clienti non possono scegliere attraverso i loro acquisti se non dispongono di questo tipo di informazioni.

Ma nemmeno il marchio garantisce che le persone sappiano quello che acquistano. Consideriamo gli alimenti detti “bio” e i prodotti che i consumatori “ecologicamente responsabili” sperano di poter comprare. Uno studio condotto nel 2010 sul mercato nordamericano da una impresa di consulenza in materia ambientale Terrachoice ha scoperto che su 4’744 prodotti per la famiglia e destinati alla pulizia della casa, che affermavano di essere “bio”, più del 95% contenevano ingredienti ingannevoli o assolutamente non tali da poterli ritenere “rispettosi dell’ambiente”. Su più del 30% degli imballaggi vi erano stampate etichette falsamente “certificate bio”. I produttori di questi articoli sono colpevoli di “greenwashing”, quello che Terrachoice definisce un “atto che inganna i consumatori sulle pratiche ambientali di una compagnia o sul carattere benefico di un prodotto o di un servizio per l’ambiente”. Il 100% dei giocattoli e il 99% dei prodotti per neonati, presi in considerazione, sono “greenwashed”.

Non sono casi eccezionali. La bilancia dell’informazione e della persuasione nella piazza del mercato pende irresistibilmente dalla parte del venditore e delle imprese.

 

L’economia usa e getta

 

Il marketing non si limita alla pubblicità ed alla classificazione, comprende l’insieme delle misure prese dalle imprese per aumentare le vendite, in termini assoluti e rispetto ai concorrenti. L’obsolescenza programmata ei prodotti usa e getta sono due forme particolarmente distruttive del marketing; cioè la creazione di prodotti concepiti deliberatamente per essere di utilizzo breve spingendo in questo modo al “sovraconsumo”.

Le imprese capitaliste hanno sempre cercato di introdurre prodotti in grado di espellere dal mercato i loro concorrenti. L’obsolescenza grammato dei prodotti implica che i fabbricanti concepiscano deliberatamente prodotti in grado di diventare presto obsoleti. Questa tecnica ha raggiunto la perfezione negli anni ‘50, quando l’industria automobilistica ha iniziato ad introdurre ogni anno nuovi modelli. Nel 1962, uno studio di tre economisti di primo piano concludeva che dal 1949 l’industria automobilistica americana aveva speso almeno 5 miliardi di dollari l’anno per cambiare modelli, il che contribuiva ad aumentare in media del 25% il prezzo di ogni vettura. [14]

Quasi tutte le altre imprese hanno imitato il successo dell’industria automobilistica. Brooks Stevens, creatore di prodotti famosi, ne spiega le regioni in un colloquio del 1958: “ Tutta la nostra economia si basa sull’obsolescenza programmata. A partire da ora, chiunque lo sa. Fabbrichiamo prodotti che piacciono, facciamo in modo che la gente li comperi e poi, l’anno dopo, introduciamo deliberatamente qualcosa che renderà superati questi prodotti, passati di moda, obsoleti. Facciamo questo per la migliore delle ragioni al mondo: far soldi” [15]

Quello che Stevens non dice è che i consumatori non gravitano automaticamento attorno ai “nuovi modelli migliorati”. L’obsolescenza programmata funziona solamente grazie ad intense campagne pubblicitarie. Non è per caso che si contano 5 fabbricanti di auto e compagnie dell’industria automobilistica tra i primi 10 che spendono di più in spese pubblicitarie; da sole il doppio di quanto spende l’insieme delle altre industrie. [16]

L’usa e getta rappresenta la forma più estrema dell’obsolescenza programmata. Si stima che l’80% di tutti i prodotti venduti negli Stati Uniti siano destinati ad essere usati una sola volta e poi gettati [17]. Gli imballaggi ne sono un esempio impressionante. Vengono chiamati anche “rifiuti in attesa”. Le scatole di conserve e d’imballaggio sono circa il 31% dei rifiuti solidi dei comuni degli Stati Uniti. Un terzo è cartone o carta (fabbricati dal legno) e il 12% plastica (fabbricata dal petrolio). La produzione di materiale di imballaggio rappresenta il 3% del consumo totale di energia negli Stati Uniti. [18]

Creando e vendendo prodotti che non possono essere aggiornati o riparati e che sono rimpiazzati da nuovi modelli qualche mese dopo la loro apparizione, l’industria elettronica è diventata, negli ultimi decenni, la campionessa dell’obsolescenza programmata. L’Agenzia federale per la protezione dell’ambiente (US Environmental Protection Agency) calcola che nel periodo 2006-2007 negli Stati Uniti sono stati gettati 20,6 milioni di televisori, 157,3 milioni di computer e 126,3 milioni di telefonini portatili [19]. La campagna Computer TakeBack [riporta il tuo computer!] afferma che questi rifiuti permettono all’industria elettronica di alleggerire i costi di tutte le aziende caricandoli sulla società nel suo complesso:“A causa dell’aumento delle vendite e della loro obsolescenza, i prodotti elettronici gettati costituiscono un flusso di rifiuti in aumento nei paesi industrializzati. I prodotti elettronici sono le prime cause della presenza di metalli pesanti e organismi inquinanti nel flusso dei rifiuti. In mancanza di un’ eliminazione progressiva ed efficace di prodotti chimici pericolosi e senza un efficiente sistema di raccolta dei rifiuti, di riutilizzo e di riciclaggio, i prodotti chimici altamente tossici, contenuti nelle composizioni dei prodotti elettronici, continueranno a contaminare il suolo, la falda freatica, ed anche l’aria, minacciando la fauna e le persone. La campagna Computer TakeBack aderisce al principio chiamato Extended Producer Responsability (Responsabilità solidale del produttore) per i rifiuti elettronici dopo l’uso. L’obiettivo di EPR è di rendere le industrie e i distributori del settore responsabili finanziariamente dei loro prodotti quando diventano obsoleti […]”. Questo principio incita i fabbricanti di prodotti elettronici a ridurre i costi di distruzione dei rifiuti, concependo prodotti che siano puliti, sicuri, durevoli, riutilizzabili, riparabili, che possano essere aggiornati e le cui parti siano facili da smontare e da riciclare.” [20]

Il principio per cui le imprese che producono merce usa e getta debbano essere responsabili e pagarne i costi è lodevole e potrebbe agevolmente essere applicato ad altre merci oltre che all’elettronica. I popolazionisti non conoscono questo principio. Affermano che questa mole di rifiuti è una prova supplementare del fatto che su questo pianeta siamo troppo numerosi. Un manuale di biologia destinato a studenti universitari lo spiega in questo modo: “In quanto esseri umani non utilizziamo solamente risorse limitate. Danneggiamo l’aria, l’acqua e altre risorse rinnovabili con l’inquinamento che produciamo per mezzo di acque luride, rifiuti e immondizia. Più siamo numerosi, più grande è l’inquinamento che produciamo”. [21]

Questo concetto sottintende che l’industria non fa altro che rispondere alla domanda dei consumatori: l’immondizia è inevitabile. Di conseguenza, l’unica variabile è il numero di persone che compera e getta. Gli autori di questo manuale dimenticano il semplice fatto che tra il 1960 e il 2000, negli Stati Uniti, i rifiuti sono cresciuti tre volte più della popolazione. [22]. Occorre cercare altrove l’origine dell’economia usa e getta e non nel tasso di natalità.

 

L’esempio dell’automobile

 

Nei paesi del nord l’auto occupa il secondo posto nelle spese famigliari. E’ anche la spesa che rispetta meno l’ambiente. Negli Stati Uniti, nel 2008 , il 17% dei gas di emissione serra provenivano da vetture da turismo e furgoncini leggeri [23]. Ciò significa che i veicoli privati sono tra i più grandi vettori di riscaldamento climatico. Queste cifre non comprendono i danni ambientali causati dalle strade molto sovvenzionate, autostrade, ponti e parcheggi. Come sta scritto in un vecchio rapporto presentato nel 1974 al Senato degli Stati Uniti: “L’utilizzo dei veicoli a motore è sicuramente uno dei mezzi di trasporto tra i meno efficaci prodotti dall’uomo moderno […] se si considerano il suo alto grado di consumo energetico, il tasso di incidenti che genera, il suo ruolo nella produzione di inquinamento e il dislocamento dei nuclei famigliari urbani.” [24]

Su questa base appare evidente e logica la conclusione che dovremmo abbandonare le nostre auto. Pubblicazioni intitolate il “Divorzio dall’auto” ci incoraggiano a farlo. Per la maggior parte delle persone, vivere senz’auto è una scelta impossibile. Non perchè sono fautori e fanatici delle automobili, ma semplicemente perché non hanno alternative pratiche: “I giornalisti continuano a sottolineare l’amore dei nordamericani per le automobili. Questo “amore” spesso non è altro che una specie di disperazione a causa di una scelta molto limitata. Il modo in cui sono stati costruiti le automobili, le strade, il sistema di trasporto (molto spesso assente), i centri urbani, le periferie ed i centri commerciali, tutto questo non lascia loro virtualmente nessuna altra scelta, per vivere e lavorare, che usare l’auto”. [25]

L’uragano che ha devastato New Orleans, nel 2005, ha dimostrato in modo spaventoso come oggi in America, le automobili siano diventate indispensabili: “Tra le numerose e spiacevoli realtà che l’uragano Katrina e le sue conseguenze hanno evidenziato […] figura la nostra dipendenza quasi completa dall’automobile. Non lo è stato mai così chiaro come al momento dell’esodo da New Orleans. Il divario tra coloro che hanno potuto fuggire e coloro che non lo hanno potuto fare era sovente dato dall’accesso a un’auto o alla disponibilità di denaro sufficiente per comprare il carburante. In questo periodo di ricostruzione, la maggior parte di coloro che sono restati in città sono stati evacuati verso campi di roulotte, dove la loro esistenza è probabilmene peggiore di prima, in parte perché non possono accedere ai posti dove si trova il lavoro.” [26]

Nella società nordamericana l’uso intenso delle automobili è il prodotto di una campagna, decisa per molti decenni, e condotta dall’industria dell’automobile e dalle compagnie petrolifere e sostenuta da politici compiacenti, il cui scopo è quello di restringere o liquidare i sistemi di trasporto pubblici, di distruggere il trasporto dei passeggeri con il treno, di destinare miliardi di dollari di denaro pubblico alla costruzione di strade e di autostrade, di decretare restrizioni di zone e di promuovere programmi per costruire alloggi che favoriscano l’estensione urbana, erigendo l’auto a simbolo supremo del successo, della libertà e della modernità.

La pianificazione delle città moderne ha imposto alla maggior parte delle persone la dipendenza dai veicoli: “Anche se possiamo decidere di acquistare veicoli ibridi o limitare i nostri spostamenti verso i supermercati, la dura realtà è la seguente: in un paese trasformato in “periferie”, solo qualche Americano è in grado di ridurre l’utilizzazione dell’automobile. Per vivere, devono lavorare. Per andare al lavoro, la grande maggioranza degli Americani deve guidare […] I due terzi degli abitanti nelle regioni metropolitane vivono nelle periferie, dove vi sono i due terzi dei nuovi posti di lavoro. Non sorprende che l’88% dei lavoratori guidi per andare al lavoro”.[27]

Attribuire alla scelta dei consumatori la causa centrale della dipendenza dalle automobili banalizza la questione e rende difficile una vera ricerca di soluzioni. Le grandi città che hanno ridotto l’utilizzo dell’auto, non ci sono arrivate educando i consumatori, ma investendo per migliorare i trasporti pubblici, rendendoli meno cari ed abbandonando le politiche “auto-centriche” che dominano nella maggior parte delle pianificazioni urbane. Se non si faranno queste scelte, le automobili continueranno a distruggere l’ambiente.

 

I limiti della scelta

 

Non affermiamo che il consumo individuale delle merci e dei servizi non abbia conseguenze sull’ambiente. Chiaro che ne ha. Ma questi aspetti devono essere compresi nel loro contesto economico, sociale e politico. Addossare la responsabilità ai soli “consumatori” o al “consumo” porta a conclusioni errate ed anche ad un orientamento sbagliato per l’azione.

L’esempio delle automobili illustra il problema fondamentale dell’idea secondo la quale sarebbe la sovranità del consumatore a guidare l’economia. Gli individui e le famiglie possono certo decidere quale auto acquistare tre le centinaia di modelli in vendita. Ma raramente, se non mai, possono fare una scelta di questo tipo per i mezzi di trasporto, altrettanto comodi.

I compratori si vedono offrire “un’infinità di piccole scelte e, scegliere Ford o Chevy [abbreviazione di Chevrolet] diventa una questione esistenziale, mentre la scelta tra auto o treno non lo è assolutamente.”[28]

Se un lavoro di convincimento e di educazione bastasse a cambiare i comportamenti, la crisi ambientale verrebbe risolta facilmente: non abbiamo mai incontrato qualcuno che volesse inquinare la terra o produrre sempre più gas a effetto serra. Il nocciolo della questione è il seguente: la maggior parte della gente non può veramente scegliere. Come scrive Kim Humphey nella sua critica delle politica anticonsumistiche: “Non è piccolo il numero dei commentatori che metabolizza il bisogno di affrontare la realtà dell’eccesso di consumi, diventando troppo intransigenti [con le persone]: diagnosticano, castigano o si prendondo semplicemente gioco dell’ apparente tristezza del materialismo delle masse condizionate […] Nel dibattito in corso vi è un bisogno urgente di insistere sul livello attuale, al quale – come consumatori e lavoratori che vivono in economie capitaliste – siamo sistematicamente costretti a vivere, a guadagnare la nostra vita, a spendere. In termini di azione socio-economica, in quanto soggetti del capitalismo, le nostre scelte sono limitate (e si differenziano secondo la classe sociale, la razza, la generazione, l’orientameno sessuale così come secondo le capacità mentali e fisiche). A livelli variabili, siamo costretti a lavorare in posti di lavoro per un certo numero di ore, a vivere in un certo tipo di abitazioni, ad utilizzare mezzi di trasporto particolari, a consumare o sovraconsumare una varietà di prodotti e di servizi, a fare la spesa in luoghi diversi ed ad evolvere per tutta la vita in maniera strutturata”.[29]

Murray Bookchin scrive “ironicamente” che “la maggior parte della gente comune, così come le loro famiglie non possono permettersi di vivere semplicemente” [30]. Per centinaia di milioni di persone, vivere senza auto significa vivere senza lavoro, senza aver accesso ai centri commerciali e al cibo, senza avere la possibilità di accompagnare i figli nei luoghi di ricreazione e dai loro amici.

I luoghi nei quali la maggior parte degli individui possono facilmente adottare modelli di vita e di consumo ecologicamente responsabili influiscono poco sulle loro vite e sulla società. Come scrive Tom Jackson, le questioni più importanti necessitano di soluzioni su scala sociale: “E’ evidente che cambiare la logica sociale del consumo non può essere relegata alle sole scelte individuali. Per la gente è quasi impossibile, nonostante il crescente desiderio di cambiamento e qualunque ne sia l’intensità, poter scegliere semplicemente modi di vita conformi all’ecologia. Persino gli individui molto motivati sperimentano il conflitto quando tentano di sfuggire al consumismo. La possibilità di estendere questi comportamenti alla società sono trascurabili, se mancano quei cambiamenti che modificano la struttura sociale.”[31]

“Infine” scrive il professore di politica ambientale Thomas Princen, “L’idea della sovranità del consumatore non ha alcun senso. E’ un mito utile a coloro che vogliono addossare ai consumatori       la responsabilità dei problemi sociali e dell’ambiente, assolvendo coloro che dispongono veramente del potere sul mercato , decidono le regole del gioco e ne traggono i maggiori benefici”.[32]                                  

 

Questo testo è la traduzione del capitolo 12 dell’opera Too Many People? (Siamo troppi?) pubblicato nel 2011 dalla Haymarket Books. La traduzione in italiano è stata curata dalla redazione di Solidarietà.

 

[1] Le Postmodernisme ou la logique culturel du capitalisme tardif, Ed. ENSBA, 2007, p. 374 (Trad. française)

[2] Cité dans Coleman, Ecopolitics, p. 38.

[3] Coecklebergh, «We’re All to Blame.»

[4] Perry, «Consumer, Not Corporate.»

[5] Potter, Society and the Social Sciences, pp. 90-91.

[6] http://blogs.mediapart.fr/blog/michael-lowy/181110/la-publicite-nuit-gravement-la-sante-de-lenvironnement [Traduzione francese di un articolo originale pubblicato nel 2010 dalla Monthly Review]

[7] John Kenneth Galbraith, The Essential, pp. 34-35.

[8] John Kenneth Galbraith, Le nouvel Etat industriel [trad. française par Maurie Le Nan, éd. de 1976, Gallimard, p. 220 – chapitre XVIII, «Le conditionnement de la demande spécifique»]

[9] Ibid.

[10] Dawson, The Consumer Trap, I, 134.

[11] J.K. Galbraith, Le nouvel Etat industriel [trad. francese di Maurie Le Nan, éd. de 1976, Gallimard, p. 229 – chapitre XVIII, «Le conditionnement de la demande spécifique»]

[12] Cotton, A Consumers’ Republic, p. 69.

[13] Terrachoice, «Terrachoice 2010 Sins»; Terrachoice, The Sins of Greenwashing, p. 20.

[14] Fisher, Griliches et Kaysen, «Costs of Automobile Model Changes», p. 450.

[15] Ibid., p.153.

[16] Nielsen Company, «U.S. Ad Spending.»

[17] Rogers, Gone Tomorrow, p. 6.

[18] EPA, «Municipal Solid Waste», p.6.

[19] EPA, «Statistics on the Management.»

[20] Computer TakeBack Campagn, «Platform».

[21] Tobin et Dusheck, Asking about Life, 592.

[22] Secondo l’US Census Bureau la popolazione è crsciuta del 50%, passando da 179 a 281 milioni. Secondo l’Agezia federale per la protezione dell’ambiente i riufiuti municipali solid sono cersciuti del 170%, passando da 88 à 239 milioni di tonnellate.

[23] Environmental Protection Agency, «Inventory of U.S. Greenhouse Gas Emissions», schema ES-2 e 2-15.

[24] Snell, «American Ground Transport.»

[25] Foster, Ecology against capitalism, p. 101.

[26] Waller, «Auto-mobility», p.19.

[27] Ibid., p.20.

[28] Dawson, op. cit., p. 144.

[29] Humphery, Excess, 7, p.133.

[30] Bookchin, «On Growth and Consumerism.»

[31] Jackson, Prosperity without Growth, p.153.

[32] Princen, «Consumer Sovereignty and Sacrifice», p.152.