Le cifre che i telegiornali snocciolano con il passare dei giorni sulla tragedia che ha visto coinvolta una grande azienda tessile alla periferia di Dhaka nel Bangladesh sono impressionanti: ampiamente oltre i mille i morti e altrettanti i feriti; senza contare tutti coloro (e potrebbero essere ancora decine e decine) che mancano all’appello. Il semplice fatto che i proprietari non siano in grado di determinare, tre settimane dopo il disastro, quanti sono i lavoratori mancanti all’appello, la dice lunga sul grado di considerazione in cui i padroni di queste aziende tengono i lavoratori!
Le condizioni di lavoro offerte in queste fabbriche richiamano quelle del mondo capitalista di due secoli fa. Alla base vi è una miscela terribile di lavoro minorile, supersfruttamento, condizioni di lavoro insalubri, orari di lavoro infiniti, pericolo costante per la propria vita in strutture che, come quella di Dhaka, possono, nello spazio di un momento, trasformarsi in vere e proprie trappole mortali. E tutto questo per veri e propri salari di fame (l’equivalente di poche decine di franchi) che tali sono non solo se analizzati dal nostro punto di vista e dai nostri livelli salariali; ma che sono salari da fame anche per un paese come il Bangladesh poiché nemmeno lì permettono di sfamare una famiglia!
E questo caso non è certo un’eccezione. Sono numerosissime le tragedie (più piccole e per questo non fanno notizia) che ogni giorno si consumano in alcuni paesi tra i più poveri come il Pakistan, la Cambogia, Haiti ed altri ancora. Ogni giorno muoiono centinaia di lavoratori, di bambini, di donne, costrette a vendere la propria forza-lavoro in condizioni disumane, obbligate in tal senso da governi corrotti e da padroni particolarmente disprezzabili.
Ma queste tragedie concernono direttamente il mondo capitalista occidentale poiché i mandanti di queste tragedie, i veri responsabili di queste morti, gli assassini, sono le grandi imprese del settore tessile, della moda, della grande distribuzione che, in forma diverse, “organizzano” questo tipo di lavoro con l’obiettivo di comprimere i costi di produzione e aumentare i tassi di profitto. È del sangue di questi lavoratori che si nutre il capitale che porta il nome di Mango, Benetton, Tex, Casinò, Wal Mart, ecc.
Il meccanismo, che sfacciatamente questi colossi invocano a propria discolpa – e che conosciamo sempre più spesso anche da noi – è quello del subappalto. Non sapevano, ci dicono, che aziende delle quali si fidano, si rifacevano poi su altre aziende organizzando queste forme di sfruttamento. Penose bugie, poiché questo tipo di prassi, in molti settori produttivi, è ormai diventato lo standard anche da noi: figuriamoci in paesi nei quali vigono povertà, corruzione e totale mancanza di diritti democratici per i lavoratori e le lavoratrici. E tutti sanno come questa catena non serva ad altro se non a comprimere il costo, ribaltando il profitto che va ai molti anelli della catena sul salario dell’ultimo elemento della catena stessa: il lavoratore alla produzione.
Dopo la tragedia del 24 aprile, una serie di manifestazioni di massa hanno costretto la direzione a concessioni in materia salariale e sicurezza. Mi ci vorrà ancora molto per recuperare un degrado delle condizioni di lavoro che, malgrado i tentativi di resistenza degli ultimi decenni, è andato viva crescendo. Una lotta quindi che è solo all’inizio, che deve proseguire e che deve trovare la nostra solidarietà incondizionata. Mai come oggi il capitalismo è un unico, mondiale e ramificato nemico dei salariati di tutto il mondo. E la nostra solidarietà deve trasformazione in un’azione politica sempre più all’insegna della solidarietà anticapitalista ed antimperialista.