Titolare di una cattedra presso la School of Oriental and African Studies, autore di opere sul Vicino Oriente,tra cui il famoso Les Arabes et la Shoah (Sindbad, Actes Sud, 2009), Gilbert Achcar ha dedicato la sua ultima opera – Le peuple veut (Sindbad, Actes Sud, 2013) – ad “una analisi radicale della contestazione araba”, che definisce come “il punto di partenza di un processo rivoluzionario” e non come“un’insurrezione conclusa”.
L’urgenza è soprattutto la Siria. Perché i paesi occidentali sono così reticenti a fornire armi agli insorti?
A causa di un veto degli Stati Uniti che non vogliono che il regime siriano venga deposto dall’insurrezione, ma preferiscono una soluzione negoziata. Ciò che vogliono è una democratizzazione nella continuità dello Stato. Ciò provoca situazioni che l’Irak digerisce male. Lo stesso processo imposto allo Yemen provoca sentimenti di frustrazione tra gli insorti. In Libia, anche se l’intervento militare ha permesso di salvare Benghazi, è stato fatto a piccoli passi: i bombardamenti servivano soprattutto a far pressione su Gheddafi affinché cedesse il potere a suo figlio, Saïf al-Islam, dando il via ad processo di democratizzazione controllata. In Siria, l’emissario ONU, Lakhdar Brahimi, che “parteggia” per Washington, come il suo predecessore, Kofi Annan, privilegiano le “soluzioni negoziate”. Ma tutti cozzano contro l’ostinazione del presidente, Bachar al-Assad, che, forte del sostegno di Mosca e Pechino, pensa ancora che vincerà , soprattutto perché, ad oggi, gli insorti non hanno usufruito di quegli aiuti in armamenti che permetterebbero loro di neutralizzare la superiorità militare del regime.
Ma anche il capo della Coalizione nazionale, Moaz al-Khatib, anche lui, ha chiesto negoziazioni con il regime…
Credeva fosse il prezzo da pagare per avere maggiori aiuti dai paesi occidentali; in particolare, un cambiamento da parte di Washington. Ha fatto le dichiarazione che ci si attendeva da lui, ma che hanno portato al nulla. In realtà, La rappresentanza esterna della rivolta, prima il Consiglio nazionale siriano, poi la Coalizione nazionale – hanno beneficiato dal sostegno degli insorti del paese nella speranza che questi pseudo presupposti, imposti delle potenze occidentali e dalle monarchie del Golfo, avrebbero ottenuto un grande appoggio dell’Occidente. Finora nulla è successo. In Siria si sta commettendo un crimine contro l’umanità e le potenze occidentali ne hanno in gran parte la responsabilità. La mancanza di assistenza ad un popolo in pericolo è un crimine. Certo, in Siria, un intervento militare diretto, alla libanese, sarebbe stato una catastrofe, ma non si tratta di questo. Rifiutando agli insorti – con pretesti vari – un invio adeguato di armi, si è tolta loro la possibilità di difendersi ad armi pari.
Da due anni, questa non è una guerra tra due campi con risorse equivalenti, ma un massacro sistematico della popolazioni da parte di forze armate, con mezzi di molto superiori a quelli dei gruppi locali, che agiscono senza una vera centralizzazione e dispongono in gran parte solo di armamenti leggeri. Con questo atteggiamento, gli Stati occidentali giungeranno a risultati contrari ai loro obiettivi: non fornire i mezzi per difendersi all’insurrezione popolare – i cui comitati locali di coordinamento hanno rappresentato e rappresentano ancora, nonostante tutto, un’insurrezione democratica e laica – permette il progredire dei gruppi islamici più fanatici perché i circoli wahhabiti sauditi inviano fondi ed armamenti. Questo atteggiamento criminale suscita risentimenti contro l’Occidente, che dà l’impressione di voler distruggere la Siria per favorire Israele.
Che cosa possiamo aspettarci?
Da più di un anno il regime continua a perdere terreno, malgrado le momentanee controffensive vittoriose. Anche se dispongono di reparti d’élite, vengono presi per sfinimento. Gli insorti iniziano a migliorare i loro mezzi grazie alle recenti forniture di armi, offerte dalle monarchie del Golfo, ma soprattutto perché hanno conquistato alcune basi militari del regime. Si può pensare che a medio termine, il regime sarà battuto. Più presto questa dinamica si confermerà, maggiore sarà la speranza che una parte dell’apparato militare, nell’interesse stesso della comunità alauita, rovescerà il clan Assad e, con i rappresentanti delle forze rivoluzionarie, organizzerà il passaggio dei poteri ad un governo eletto democraticamente. Questa sarebbe l’ alternativa meno costosa, ma che potrà realizzarsi solo se le forze lealiste prenderanno coscienza che la loro sconfitta sul breve- medio termine è inevitabile. Ora, unitamente al loro capo, conservano ancora, più o meno, l’illusione che vinceranno, ancora una volta a causa del sostegno che ricevono dall’estero. Quando un corpo d’armata privilegiato, che beneficia di importanti sostegni materiali e finanziari, ha l’impressione di battersi ormai con le spalle al muro, la guerra può durare anni.
Qual è la ragione di questa differenza tra rivolte come quelle tunisina ed egiziana e la Siria?
Dopo Hafez al-Assad, l’apparato di Stato è stato completamente riorganizzato in modo da creare un legame stretto tra il regime – che utilizza la carta allauita [meno del 10% della popolazione] come carta vincente del suo potere – e le forze armate, nocciolo duro dello Stato. A differenza della Tunisia e dell’Egitto, dove il nocciolo duro si è presto allontanato dagli autocrati, in Siria non vi è stato un processo pacifico: la solidarietà con la dinastia regnante è molto più forte. Di fronte alla scelta tra rovesciare il regimen o farsi schiacciare, per gli insorti siriani la scelta di armarsi non può essere considerata un “errore”. Al momento, il popolo si trova in un tragico isolamento.
Le rivolte negli altri paesi arabi hanno una trama comune?
Sì, alcune modalità di rivolta sono identiche. Non si possono ridurre a lotte per la democrazia a meno di non volerle svuotare del loro vero significato. Tutti gli aspetti legati alla dimensione sociale sono molto presenti. In Tunisia, prima dello slogan “Il popolo vuole rovesciare il regime” si sentiva lo slogan “Il lavoro è un diritto, banda di ladri!”. Perché da una decina di anni il mondo arabo detiene il record mondiale della disoccupazione, nonostante risorse enormi. La ragione? La nascita di un tipo particolare di sviluppo capitalista. Secondo le ricette neoliberali imposte da una quarantina di anni, il settore privato è destinato ad essere il motore dello sviluppo a scapito del settore pubblico. E dunque, il capitalismo privato del mondo arabo, orientato in gran parte verso la speculazione ed il profitto a corto termine, non ha compensato l’abbandono dello Stato. Un blocco della crescita quindi, le cui drammatiche conseguenze sociali (povertà, disuguaglianza, precariato, disoccupazione) si sono aggravate dagli anni ’70, sotto l’effetto di un dispotismo politico e di un nepotismo che i regimi hanno adottato come modo di governare. È bastata una piccola scintilla per incendiare gli animi, e non vuole essere un macabro gioco di parole, come quella rappresentata dall’immolazione del giovane Bouazizi.
Visti questi dati, si capisce come ciò che si è scatenato non si fermerà molto presto. Per questo parlo di un “processo rivoluzionario a lungo termine”. I despoti non erano l’unico bersaglio. Il processo non arriverà ad un qualsiasi tipo di stabilizzazione se non dopo un certo numero di anni. Nonostante vari governi con prospettive su questioni sociali ed economiche radicalmente differenti, la regione persisterà in un processo rivoluzionario con avanzate e arretramenti, come ogni rivoluzione.
Queste rivoluzioni ignorano le tradizioni, la necessità di una certa mescolanza….
All’inizio delle manifestazioni in piazza Tahir, al Cairo, i raduni erano misti senza molestie sessuali, o molto meno di quello che ci si poteva attendere. Ma dopo, si è assistito sempre più ad una perdita di controllo con stupri. Ma non dimentichiamo che la rivoluzione in corso avviene dopo tre decenni di reazione politica e culturale, con un regime che utilizzava a fondo l’Islam per contrastare la radicalizzazione sociale. Ha permesso l’islamizzazione delle università per contrastare la sinistra studentesca. Questi governi hanno utilizzato l’ordine morale ed islamico, permettendo alle religioni di intervenire negli ambienti sociali e culturali per imbavagliare meglio la contestazione.
Ed oggi, trionfano i partiti d’ispirazione religiosa…
Potrebbe essere il loro canto del cigno. Raccolgono ciò che hanno seminato per anni, ma sono frutti avvelenati, perché non portano soluzioni. In Egitto, Mohamed Morsi è un Mubarak con qualche versetto del Corano in più nei discorsi. L’opposizione ha ragione nel sottolineare che vi è più continuità che discontinuità tra Morsi e Mubarak. Non sono scoraggiato per la loro vittoria perché non mi attendevo null’altro. Le ragioni? L’appoggio televisivo di Al-Jazira, il sostegno finanziario del Qatar, un’opposizione laica e di sinistra piuttosto debole. Ciò che stupisce non è la loro vittoria in Egitto e in Tunisia, ma i loro risultati così mediocri. In Egitto, sotto Sadat e Mubarak, i Fratelli musulmani sono stati tollerati ed hanno potuto costruire un’imponente struttura organizzativa, che li ha portati ai loro primi successi elettorali. Ma dalle elezioni parlamentari alla presidenziale, i loro risultati si sono sgretolati. La loro arroganza contribuisce al rifiuto da parte di un settore sempre più ampio della popolazione nei loro confronti. Mohamed Morsi, eletto per poco al secondo turno, grazie ai voti dei suoi concorrenti contrari ai militari, non ha considerato questa realtà. La stessa situazione osserviamo in Tunisia, per Ennahda, che si comporta come sa avesse diretto la rivoluzione mentre non aveva fatto che aggregarsi. Questi partiti hanno accelerato il loro declino attraverso il loro comportamento. Resta da vedere se l’opposizione di sinistra riuscirà a costruire un’alternativa credibile, privilegiando le rivendicazioni sociali.
* intervista apparsa sul quotidiano francese Libération il 19 aprile 2013.
La traduzione in italiano è stata curata dalla redazione di Solidarietà.