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MetalmeccaniciA prima vista potrebbe avere un sapore “storico” il contenuto del rinnovo del più importante contratto collettivo di lavoro (CCL) del paese, quello tra l’associazione degli industriali del settore delle macchine (cioè le più importanti industrie svizzere nel settore metalmeccanico) e i sindacati del settore. Qualcuno non ha esitato ha definirlo tale.

 

Infatti il recente rinnovo ha in particolare deciso (ed è di fatto la novità formalmente più significativa) l’introduzione in questo contratto collettivo di lavoro dei salari minimi attraverso due categorie, i lavoratori non qualificati e i lavoratori qualificati.

Si tratta, senza dubbio, di un elemento di “novità” importante, non foss’altro poiché rompe con una tradizione di lunghi decenni, legata alla pace del lavoro ancorata nei rapporti contrattuali e politici tra i sindacati e il padronato dell’industria delle macchine (e dell’orologeria).

Una lunga tradizione di pace del lavoro

L’elemento centrale di questa regolamentazione contrattuale è sempre stato, infatti, la fissazione di quello che potremmo chiamare un quadro di regole comportamentali, in particolare per i lavoratori, legati alla difesa della pace del lavoro e quindi alla rinuncia allo sciopero e ad altre forme di mobilitazione e lotta, così come alla rinuncia di una presenza diretta delle organizzazioni sindacali sui luoghi di lavoro.

Le relazioni all’interno delle aziende sono sempre regolate dalla mediazione delle commissione aziendali, nelle quali storicamente le organizzazioni sindacali erano rappresentate. Ma l’azione delle commissioni aziendali si è sempre configurata come elemento di integrazione e non di conflitto rispetto all’azienda ed ai suoi interessi. Lo sviluppo di questo ruolo, condiviso dalle organizzazioni sindacali tradizionali, a portato poco a poco allo svuotamento di qualsiasi reale rappresentanza sindacale: tanto è vero che oggi le organizzazioni sindacali tradizionali (UNIA, sindacati cristiani) sono minoritarie o del tutto   assenti all’interno di queste strutture, dominate da organizzazioni di categoria legate agli interessi aziendali (associazione degli impiegati, associazioni dei quadri, ecc.)

Risultato di questa tradizione di pace del lavoro è stata la scarsa regolamentazione delle condizioni di lavoro. Basti ricordare, ad esempio, che il salario, in decenni di esistenza di questo contratto, non è mai stato oggetto di fissazione, lasciandolo alla libera contrattazione individuale. Lo stesso si potrebbe dire per l’orario di lavoro. Esso viene fissato annualmente e poi permette ai datori di lavoro ampi spazi di flessibilità che possono facilmente oscillare tra le 30 e le 45 ore settimanali. Una flessibilità che il recente rinnovo contrattuale ha ulteriormente ampliato.

Ma flessibilità è parola d’ordine alla base di tutta l’organizzazione contrattuale. Tanto da essere codificata in un famigerato “articolo di crisi”, l’art. 57 che permette all’azienda di applicare in modo flessibile diverse disposizioni contrattuali nel caso di eventi diversi che mettono sotto pressione, a giudizio dell’azienda, le prospettive della stessa. Tra gli elementi che possono essere sospesi o modificati nella loro applicazione vi sono sia il salario che l’orario di lavoro. In altre parole, se la situazione appare all’azienda difficile o tale da diminuire la propria redditività, essa può semplicemente scaricarne le conseguenze sui lavoratori…applicando il CCL di categoria.

L’introduzione di salari minimi, ovvero: chi fa la storia?

La stampa, i dirigenti sindacali, un po’ tutti gli addetti ai lavori hanno sottolineato come la fissazione di salari minimi in un CCL che esisteva da 76 anni senza contemplarli possa e debba essere considerata un avvenimento “storico”. Sul piano dei fatti non vi sono dubbi che la presenza nel contratto di un elemento fondamentale nuovo come il salario rappresenti, nella storia del CCL dell’industria delle macchine, un elemento di novità importante sul piano della sua storia.

Ma con l’ uso del termine “storico” si suole indicare un progresso decisivo, un momento di rottura in positivo rispetto   ad una tradizione e tale da rappresentare una risposta adeguata a problemi ed interrogativi del presente. La “storia”, in particolare quella che rappresenta progressi decisivi per i lavoratori e le loro condizioni, si fa sulla base di spinte sociali profonde, sulla base di lotte che tendono a stabilire un rapporto di forza che cambia il quadro fondamentale.

Siamo di fronte ad una situazione di questo genere con il rinnovo del CCL dell’industria delle macchine e, in particolare, con l’introduzione di salari minimi?

Non ci pare. E per diversi motivi che vorremmo qui illustrare.

Il primo, lo hanno sottolineato in molti, è il livello dei salari fissati in questo CCL. Per i lavoratori non qualificati si prevedono tre fasce salariali; esse vanno dai 3’300 franchi del Ticino (regione C) ai 3’850 franchi per la regione A (sostanziale ZH e AG), passando dai 3’600 franchi della regione B (il resto della Svizzera). Per i lavoratori qualificati in Ticino è previsto un minimo di 3’600 franchi, per la regione B 3’900 franchi e per la regione A 4’150 franchi. Va ricordato che questi salari sono versati 13 volte. Si tratta, evidentemente, di salari ben al di sotto dei salari mediani (cioè quei salari che dividono esattamente in due l’insieme dei salariati di un settore o di un dato territorio). Ed allora, quale influenza possono avere sulla dinamica salariale reale?

Non vi sono dubbi che la fissazione di salari minimi di riferimento (legali o contrattuali come in questo caso) molto più bassi dei salari effettivamente versati in un settore o in un territorio tenderanno a spingere l’insieme dei salari verso il basso; è quel fenomeno oggi assai conosciuto con il nome di dumping salariale.

La fissazione di salari minimi contrattuali (decretati di obbligatorietà generale) o legali è, lo vogliamo qui ribadire, uno strumento prezioso e fondamentale contro il dumping salariale. La grande colpa del movimento sindacale è di essere stata per decenni (fino a pochissimi anni fa) contrario all’idea di fissare per legge salari minimi, accodandosi in questo al punto di vista padronale.

Altra funzione avrebbero potuto avere questi salari minimi se essi fossero stati fissati       tenendo conto perlomeno il salario mediano, rappresentando quindi un reale strumento contro la politica di dumping salariale perseguita dal padronato.

Un secondo punto riguarda l’estensione di questo accordo. Val la pena ricordare che il Ticino occupa circa il 6% dei circa 100’000 lavoratori sottoposti a questo CCL (su un settore che complessivamente ne conta circa 300’000), mentre le altre due regioni contrattuali (A e B) si suddividono grosso modo il resto dei lavoratori.

Vediamo quindi che due terzi dei lavoratori attivi in questo settore sfugge a qualsiasi regolamentazione , non applicandosi nemmeno le indicazioni di questo contratto e non essendoci alcuna prospettiva, nemmeno a medio termine, che questo contratto possa in qualche modo diventare di obbligatorietà generale.

Un terzo aspetto è rappresentato dalla confutazione di un’obiezione che già si sente venire da parte sindacale. Si ammette che, certo, questi salari sono bassi. Ma, si aggiunge, si tratterebbe di un punto di partenza per poi poterli migliorare in modo sensibile.

Ora, tutto questo potrebbe anche poter essere, in linea astratta, un ragionamento con qualche fondamento. Ma, se scendiamo nell’analisi della situazione e dei rapporti di forza concreti, ci rendiamo conto del totale irrealismo di simili argomenti. Infatti il padronato ha per finire accettato l’introduzione di salari minimi nel CCL proprio perché sapeva che sarebbero stati, in particolare per i lavoratori qualificati, tendenzialmente bassi. Questo accordo, infatti, è stato siglato “a freddo” potremmo dire, senza il concorso attivo di una mobilitazione e di una discussione tra e con i lavoratori. Il padronato non sarebbe certo stato obbligato ad accettare, visti i rapporti di forza, l’introduzione di salari minimi. Diciamo pure chiaramente che il sindacato non disponeva di nessuna capacità né di mobilitazione, né di pressione (intendendo con questo azioni forti, tese a contare nel modificare il rapporto di forza: non parliamo delle innocue manifestazioni-gite turistiche alle quali si è ormai ridotta l’azione sindacale).

Nemmeno coloro che nel sindacato questo accordo hanno criticato (pensiamo, ad esempio, ad alcune sezioni di Unia) hanno mostrato di avere né le capacità, né tantomeno le intenzioni di costruire una politica alternativa sulla quale fondare accordi diversi. Diciamo che, come sempre ormai da un decennio, in questo sindacato le battaglie d’apparato interno hanno sostituito le discussioni vere e reali sulle condizioni di vita e di lavoro dei salariati e sulle strategie per migliorarle.

Il padronato sa benissimo che questi salari non subiranno nei prossimi anni cambiamenti di fondo e che essi rappresenteranno un utile strumento di riferimento per livellare e spingere verso il basso i salari effettivi. Oltre a rappresentare un buon argomento (ed i padroni lo hanno già dichiarato pubblicamente) contro l’iniziativa dell’USS che vorrebbe introdurre un salario minimo legale.

Complessivamente il rinnovo contrattuale si conclude con un affare per il padronato dell’industria delle macchine. Con l’introduzione di salari minimi decisamente bassi, hanno posto le basi per prolungare per anni le condizioni favorevoli di cui possono godere, dal punto di vista della pace sociale, grazie ad un CCL che garantisce pace assoluta del lavoro, massima flessibilità (in forte aumento) sia nelle condizioni di lavoro che nei salari.

Il nuovo CCL dell’industria delle macchine rappresenta in un certo senso una misura di accompagnamento esemplare. Una misura che potrà essere presentata come tale ma i cui effetti nella lotta al dumping saranno di fatto nulli. Anzi, esso concorrerà a rendere ancora più competitiva l’industria svizzera delle macchine. Nella totale continuità con la tradizionale pace del lavoro.