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Manifestazione-Fiom h partbContrariamente a quello che scrivono le varie sinistre sindacali, la sentenza della Consulta è stata resa possibile dall’intesa tra Confindustria, Cgil, Cisl e Uil e fonda una nuova fase di relazioni sindacali. Il confronto con il 1995 e con la Corte costituzionale di allora.

 

Qual è la logica che sta alla base di due sentenze diametralmente opposte, sullo stesso tema, della Corte Costituzionale? La prima, n° 244 del 1996, che aveva dichiarato costituzionale quella parte dell’art. 19 dello Statuto dei lavoratori così com’era uscita dopo il referendum del 1995, la seconda – quella recentissima del 3 luglio 2013 – che ha invece dichiarato incostituzionale la stessa parte dell’art. 19. Si sta parlando dei diritti dei sindacati a costituire proprie rappresentanze sui luoghi di lavoro. La formulazione originaria dell’art. 19 recitava: “Rappresentanze sindacali aziendali possano essere costituite ad iniziativa dei lavoratori in ogni unità produttiva nell’ambito: a) delle associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale; b) delle associazioni sindacali, non affiliate alle predette confederazioni, che siano firmatarie di contratti collettivi nazionali o provinciali di lavoro applicati nella unità produttiva. Nell’ambito di aziende con più unità produttive le rappresentanze sindacali possono istituire organi di coordinamento”.

Nella primavera del 1995 si svolsero congiuntamente due referendum riferiti alla seconda parte dell’articolo. Uno per abrogare solo il primo comma (a), relativo alla maggiore rappresentatività. Il secondo, invece, per abrogare entrambi i commi, in modo tale da arrivare a un articolo che indicasse solo la possibilità di costituire rappresentanze sindacali senza alcun limite e ostacolo normativo. Nel caso dell’abrogazione parziale il sostegno venne innanzitutto dalla sinistra della Cgil e, al di là delle dichiarazioni ufficiali, da gran parte di Rifondazione Comunista, mentre l’abrogazione totale fu sostenuta dalla maggioranza delle organizzazioni del sindacalismo di base e da una minoranza di Rifondazione. Il referendum per l’abrogazione parziale ottenne la maggioranza dei voti, quello per l’abrogazione totale fu sconfitto per poche migliaia di voti dopo uno spoglio che incredibilmente durò per svariate ore nelle notte.

Il risultato fu un art. 19 che permetteva la costituzione di rappresentanze sindacali per iniziativa “dei lavoratori in ogni unità produttiva, nell’ambito delle associazioni sindacali che siano firmatarie di contratti collettivi di lavoro applicati nell’unità produttiva”. In sostanza un risultato, accolto favorevolmente da molta sinistra politica e sindacale, che imponeva il criterio della firma dei contratti applicati all’unità produttiva per essere riconosciuti. Non contavano gli iscritti, la forza delle lotte, i diritti democratici sui luoghi di lavoro.

Nel 1996 c’è stato il primo pronunciamento della Corte Costituzionale dopo che la Federazione Lavoratori Metalmeccanici Uniti (Flmu), aderente alla Cub, aveva presentato una serie di denunce contro la Fiat per il mancato riconoscimento in quanto organizzazione sindacale – allora non c’era Marchionne e questo dovrebbe chiarire molte cose sulle strategie della Fiat -. La sentenza della Corte Costituzionale fu un capolavoro di ipocrisia concertativa. La nuova formulazione dell’art. 19 venne riconosciuta come costituzionale in quanto: “Si giustifica, in linea storico-sociologica e quindi di razionalità pratica, per la corrispondenza di tale criterio allo strumento di misurazione della forza di un sindacato, e di riflesso della sua rappresentatività, tipicamente proprio dell’ordinamento sindacale. Così interpretata, in conformità della sua ratio, la norma impugnata non contrasta con nessuno dei parametri costituzionali richiamati. Non viola l’art. 39 Cost. perché le norme di sostegno dell’azione sindacale nelle unità produttive, in quanto sopravanzano la garanzia costituzionale della libertà sindacale, ben possono essere riservate a certi sindacati identificati mediante criteri scelti discrezionalmente nei limiti della razionalità; non viola l’art. 3 Cost. perché, una volta riconosciuto il potere discrezionale del legislatore di selezionare i beneficiari di quelle norme, le associazioni sindacali rappresentate nelle aziende vengono differenziate in base a (ragionevoli) criteri prestabiliti dalla legge, di guisa che la possibilità di dimostrare la propria rappresentatività per altre vie diventa irrilevante ai fini del principio di eguaglianza.”

Una strana logica, per usare un eufemismo, quella di una Corte Costituzionale che stabilisce una connessione diretta tra una linea “storico-sociologica”, cioè l’azione concertativa congiunta di Cgil-Cisl-Uil, e una “razionalità pratica”, cioè l’esclusione dei sindacati più combattivi, in quel caso la Flmu. Ma non ci si ferma qui. Non si viola l’articolo 39 della Costituzione perché le norme di sostegno all’azione sindacale, in pratica il riconoscimento padronale solo di alcuni sindacati, hanno la precedenza rispetto alla garanzia costituzionale delle libertà sindacale. E nemmeno si azzera l’art. 3 della Costituzione, in quanto chi fa le leggi ha il potere discrezionale di selezionare i sindacati e differenziarli in base a “ragionevoli” criteri prestabiliti che hanno maggior peso rispetto ad altre vie ai “fini del principio di uguaglianza”. Una sentenza che, purtroppo, non suscitò particolare scandalo nemmeno negli ambienti di tanta sinistra allora considerata radicale, per non parlare della Cgil e della Fiom. Una sentenza che avrebbe aperto la strada a effetti devastanti come l’accordo del 1997 sulla rappresentanza sindacale nel pubblico impiego, pensato e applicato con lo scopo di emarginare il sindacalismo di base e consolidare l’impianto concertativo di Cgil, Cisl e Uil. Erano i tempi del primo governo Prodi, delle massicce privatizzazioni, delle leggi che precarizzavano oltre misura, dell’istituzione dei Cpt, i lager per soli migranti.

La seconda sentenza della Corte Costituzionale è arrivata dopo che Marchionne ha deciso di applicare letteralmente l’art. 19, escludendo la Fiom dalla rappresentanza all’interno della Fiat in quanto non firmataria di un contratto collettivo applicato nell’azienda. Il pronunciamento della Corte Costituzionale del 3 luglio scorso sembra che ribalti completamente quello di 17 anni fa. La realtà dei fatti non è proprio così. L’art. 19 è dichiarato illegittimo costituzionalmente “nella parte in cui non prevede che la rappresentanza sindacale aziendale sia costituita anche nell’ambito di associazioni sindacali che, pur non firmatarie di contratti collettivi applicati nell’unità produttiva, abbiano comunque partecipato alla negoziazione relativa agli stessi contratti quali rappresentanti dei lavoratori dell’azienda”. Quindi sono titolati ad avere rappresentanza anche quei sindacati che partecipano alle trattative e non solo quelli che firmano gli accordi con le aziende. Perché oggi sì e allora, nel 1996, no? è la domanda spontanea che sorge. La risposta si trova sempre nella recente sentenza della Corte:

“Nell’attuale mutato scenario delle relazioni sindacali e delle strategie imprenditoriali, quale diffusamente descritto ed analizzato dai giudici a quibus, l’altro (speculare) profilo di contraddizione (per sbilanciamento in difetto) – teoricamente, per quanto detto, già presente nel sistema della lettera b) del primo comma, dell’art. 19, ma di fatto sin qui oscurato dalla esperienza pratica di una perdurante presenza in azienda dei sindacati confederali – viene invece ora compiutamente ad emersione. E si riflette nella concretezza di fattispecie in cui, come denunciato dai rimettenti, dalla mancata sottoscrizione del contratto collettivo è derivata la negazione di una rappresentatività che esiste, invece, nei fatti e nel consenso dei lavoratori addetti all’unità produttiva. In questa nuova prospettiva si richiede, appunto, una rilettura dell’art. 19, primo comma, lettera b), dello Statuto dei lavoratori, che ne riallinei il contenuto precettivo alla ratio che lo sottende.”

La citazione è lunga e il linguaggio e volutamente ostico. Il senso invece, con un’opportuna traduzione, è chiaro. Siccome non esiste più l’unità sindacale tra Cgil-Cisl-Uil, cioè la concertazione, il comportamento di Marchionne, corretto dal punto di vista dell’interpretazione letterale dell’art. 19, si traduce in una discriminazione di fatto di un sindacato ex-confederale rappresentativo, violando gli art. 3 e 39 della Costituzione. Ciò che vale oggi per la Fiom non valeva nel 1996 per la FMLU per il semplice motivo che la FMLU non era tra i sindacati concertativi.

Non è un caso che la Corte Costituzionale si sia pronunciata un mese dopo la firma – da parte di Cgil, Cisl, Uil e Confindustria, con l’approvazione della Fiom – del vergognoso accordo sulla rappresentanza sindacale del 31 maggio scorso, in cui si sancisce una sorta di dittatura dei sindacati confederali sui luoghi di lavoro. E non stupiscono i due comunicati, in merito alla sentenza, degli avvocati del collegio di difesa della Fiom che terminano entrambi con l’esaltazione di quel accordo. Dovrebbero destare invece qualche stupore i commenti ad esempio della Rete 28 aprile: “Non si può non considerare come questa sentenza affossi e renda evidente l’incostituzionalità dell’accordo del 31 maggio tra Cgil, Cisl e Uil, che è fondato proprio sulla divisione di diritti e prerogative tra organizzazioni sindacali firmatarie e non firmatarie” e dell’Unione sindacale di base: “Questa sentenza destruttura completamente l’Accordo del 31 maggio scorso una sentenza che mette completamente fuorigioco l’accordo ad excludendum sottoscritto da Confindustria, Cgil, Cisl, Uil e Ugl.”

E’ esattamente il contrario: la recente sentenza della Corte Costituzionale è stata possibile solo dopo la sottoscrizione dell’accordo del 31 maggio. Nel migliore dei casi si scambiano lucciole per lanterne, nel peggiore si resta ancorati a una concezione del sindacato come riproduzione infinita di (piccoli) gruppi dirigenti “illuminati” che fanno le veci dei lavoratori. Discorso diverso meritano gli entusiasti paladini, apparsi qua e là sulla stampa di sinistra, della difesa intransigente della Costituzione da parte della Corte Costituzionale. Dovrebbero rileggersi attentamente quella parte della Costituzione dedicata ai “rapporti economici”, facendo un piccolo sforzo per sostituire il termine “economici” con quello “di classe”.

 

Tratto da www.ilmegafonoquotidiano.it