5544 manifestazioni in cinque mesi, 42 al giorno. Queste cifre, contenute in un rapporto citato da DailyNews Egitto, mostrano quanto l’Egitto sia in fibrillazione in questo 2013. I dati relativi ai mesi marzo, aprile e maggio (1354, 1462 e 1300 manifestazioni) rendono questo paese quello con il maggior numero di mobilitazioni al mondo in questo periodo. Due terzi di questi manifestazioni riguardano questioni economiche e sociali, troppo spesso eluse dalla stampa a vantaggio delle lotte politiche.
Professore alla Scuola di Studi Orientali e Africani di Londra, lo studioso Gilbert Achcar ha pubblicato nella primavera del 2013 Le Peuple veut (Actes Sud), in cui tenta di analizzare le cause sociali delle rivoluzioni così come le strutture economiche dei paesi arabi, cercando di anticiparne la loro evoluzione.
L’intervista è stata realizzata lo scorso 30 giugno, ma essa appare ancora più attuale perché ci permette di cogliere alcuni aspetti fondamentali che illustrano lo sviluppo degli avvenimenti degli ultimi giorni e delineano possibili sviluppi futuri (Red).
Perché tanta enfasi sulla questione sociale in Egitto, in questo periodo di grande agitazione politica?
Vi è un’abitudine dei media di prestare attenzione solo agli aspetti politici. In Egitto, l’ondata di scioperi che hanno preceduto la rivolta nel gennaio 2011 è ancora in atto. Si può notare, in particolare attraverso le regolari prese di posizione dei sindacati indipendenti, l’ intensità delle varie azioni sociali.
All’epoca di Nasser, l’Egitto aveva subito un indottrinamento di tipo sovietico, sul modello della maggior parte dei regimi dittatoriali: le libertà e l’autonomia vengono soppressi trasformando in questo modo i sindacati in strumenti legati direttamente allo Stato. Questa situazione si era mantenuta tale e quale per decenni, nonostante le numerose privatizzazioni economiche e le misure di liberalizzazione adottate a partire dall’epoca della presidenza Sadat. La cosa conveniva perfettamente al potere che poteva in questo modo tenere sotto controllo la classe lavoratrice egiziana attraverso il controllo dei sindacati.
Con l’impressionante ondata di scioperi che si è andata sviluppando a partire dal 2005, e che ha raggiunto un “picco” nel 2008,, abbiamo potuto assistere alla costituzione del primo sindacato indipendente in Egitto dal 1950. Si tratta di un sindacato attivo in un piccolo settore, gli esattori dell’imposta fondiaria, ma decine di migliaia di egiziani vi hanno aderito. E ‘diventato il nucleo dello sforzo in atto in Egitto per la costruzione di un movimento sindacale indipendente; un’organizzazione che è riuscita a strappare al potere la propria legalizzazione, dopo molti presidi davanti al Parlamento, in particolare approfittando della visita di una delegazione dell’Ufficio Internazionale del Lavoro (ILO) al Cairo.
Altri sindacati hanno cercato di fare lo stesso sotto Mubarak, senza successo. È per questo che ho sempre sottolineato che rivolta del 2011 in Egitto non è stato un fulmine a ciel sereno. E ‘stato davvero il culmine di un processo di radicalizzazione sociale.
Quale è stata la dinamica delle forze sindacali dopo il rovesciamento del presidente Hosni Mubarak?
I sindacalisti hanno potuto sviluppare ed estendere la loro azione ed abbiamo visto emergere una nuova centrale sindacale, la Federazione Egiziana dei Sindacati Indipendenti (FITU in inglese), che tra l’altro ha subito una scissione alcuni mesi più tardi, portando così alla creazione di una seconda federazione.
La FITU vanta 2 milioni di iscritti. Possiamo quindi affermare che vi è un nuovo movimento sindacale in Egitto, indipendente e molto radicale, un po’ sul modello del sindacato SUD in Francia, ovviamente più massiccio. Il movimento sindacale è poi riuscito a fare in modo che l’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL) mettesse sulla propria lista nera l’Egitto, in particolare dopo che il governo Morsi ha rifiutato di adottare le libertà sindacali riconosciute a livello internazionale, continuando a mantenere un quadro giuridico repressivo e non democratico. Si tratta di uno degli aspetti più profondi della continuità tra il governo e Morsi il regime di Mubarak.
Qual è l’atteggiamento dei Fratelli Musulmani, una forza politica di massa, nei confronti delle organizzazioni sindacali?
La Fratellanza Musulmana ha ignorato i sindacati indipendenti, che si muovono nella prospettiva di un radicalismo sociale al quale essa si è sempre opposta. Per contro hanno infiltrato i sindacati ufficiali, di cui hanno cercato di assumere il controllo piazzando propri uomini in posizioni chiave. Questo è il motivo per cui vogliono mantenere questo quadro giuridico antidemocratico. Inoltre, i sindacati ufficiali – ai quali l’adesione era obbligatoria sotto il vecchio regime, e che si vorrebbe mantenere con questo stesso statuto – possono contare su risorse incomparabilmente più importanti rispetto a quelle dei sindacati indipendenti ed in particolare della FITU.
Dopo la caduta di Mubarak, i Fratelli Musulmani hanno sempre condannato quelli che definiscono come “scioperi professionali”, un modo evidente di mettere in opposizione gli interessi della classe operaia egiziana con l’interesse nazionale.
Dal 2011, quali sono le grandi lotte e le conquiste sociali che hanno visto impegnate le forze sindacali indipendenti?
Gli scioperi interessano o hanno interessato quasi tutti i settori, pubblici e privati, l’industria così come i servizi. C’è stato un importante sciopero nei trasporti pubblici. Tutti i giorni vedono svolgersi importanti battaglie sindacali nelle aziende private o pubbliche. Una delle rivendicazioni più importanti riguarda la questione dei salari minimi, così come anche quella dei salari massimi: è infatti una delle peculiarità della storia sindacale egiziana quella di aver immaginato la fissazione di un salario massimo. Ma non c’è stata di recente una battaglia sindacale su un tema unificante a livello nazionale. Le lotte sociali hanno per il momento più un carattere settoriale o locale che nazionale.
Quale tipo di politica economica e sociale hanno messo in pratica i Fratelli Musulmani?
C’è sta una continuità tra il vecchio regime, la fase dei militari e quest’anno caratterizzato dal governo Morsi. Sul piano sociale ed economico non vi è stato alcun cambiamento. Il governo formato da Morsi ha sviluppato la logica di approfondire i negoziati con il Fondo monetario internazionale (FMI), di cui condivide la diagnosi sulla situazione del paese e la necessità di una politica di deregolamentazione. Il governo ha quindi accettato le condizioni poste dall’FMI per l’ottenimento di prestiti, anche se nel contesto politico attuale non è in grado di imporle. Lo si è visto in particolare sulla proposta di sopprimere i sussidi ai prodotti di prima necessità: vi è stato un tentativo di farla adottare, che però è stato immediatamente annullato da un annuncio apparso sulla pagina Facebook dello stesso Morsi che revocava le misure annunciate dal governo poche ore prima. I negoziati con l’FMI sono per il momento a un punto morto.
Il governo è bloccato in questa sua logica neoliberista, e cerca di guadagnare tempo fino alle prossime elezioni, in particolare grazie ai prestiti ottenuti dal Qatar. In un paese che vive in un tale fermento sociale – dove il capitalismo è più orientato verso il conseguimento rapido di profitti piuttosto che verso uno sviluppo industriale o sostenibile – una logica economica che si fonda sull’idea della centralità del settore privato è necessariamente destinata al fallimento. E questo poiché non vi sono assolutamente le condizioni che consentirebbero al settore privato di rilanciare gli investimenti e l’economia nel suo complesso. Inoltre, i Fratelli Musulmani continuano ad agire nella loro logica di interventi caritativi, che permette loro di evacuare il tema dei diritti sociali e il ruolo dello Stato nella giustizia sociale e nella ripresa economica.
Questa logica si scontra con la diagnosi che lei fa quanto alla cronica politica di sotto-investimento che caratterizza da decenni le economie del Maghreb e del Medio Oriente, in modo particolare l’Egitto.
Sulla base dei dati forniti dalle istituzioni internazionali, e in una prospettiva comparativa con altri raggruppamenti geografici dello spazio afro-asiatico, è chiaro che vi è stato un freno dello sviluppo nel mondo arabo negli ultimi decenni, almeno a partire dagli anni 1970. Questo freno ha generato una disoccupazione record, soprattutto tra i giovani, una caratteristica questa di tutta la regione e una delle ragioni di fondo delle esplosioni sociali e delle rivoluzioni in corso. Cercando di capire meglio da dove sorge il problema, si può constatare come questo freno allo sviluppo sia da mettere in relazione con un tasso di investimento significativamente inferiore in questa regione rispetto ad altrove. E questo debole tasso è dovuto ad un disimpegno dello Stato a partire dall’inizio degli anni 1970, sulla base dello sviluppo di una logica tesa a privilegiare il settore privato. Tuttavia nei paesi arabi, e in Egitto in particolare, il settore privato non è stato assolutamente capace di rispondere a questa prospettiva, sia a causa della sua stessa natura, sia per la sua logica tesa alla ricerca del profitto a corto termine. Sta proprio qui il problema di fondo: indipendentemente dalla prospettiva politica che si privilegia, lo Stato deve assumere un ruolo centrale dal punto di vista del rilancio economico e dello sviluppo, non foss’altro che nella prospettiva di creare le condizioni per la nascita di un vero settore privato, capace e disposto ad investire nel paese.
Invece di indebitarsi per oltre 18 miliardi dollari nei confronti del Qatar, il governo avrebbe dovuto orientarsi verso fondi già disponibili nel paese. I miliardi, accumulati all’epoca di Mubarak con operazioni di appropriazione indebita di fondi pubblici da parte delle grandi famiglie, avrebbero potuto essere nazionalizzate contando per questo anche sul sostegno dell’opinione pubblica. Invece, i militari e i Fratelli Musulmani hanno negoziato un compromesso con questi grandi famiglie e continuato nella stessa logica economica.
L’attuale opposizione politica egiziana è in grado di affrontare queste problematiche?
Questo è il problema di una opposizione molto composita. Il fronte di salvezza nazionale (FSN) è estremamente eterogeneo: va da figure che rappresentano una parte del vecchio regime ( come Amr Moussa) ad Al Baradei, che non ha un vero programma economico fino a figure come Hamdine Sabahi, il terzo uomo della elezione presidenziale, un nasseriano di sinistra. Le prospettive sono molto diverse, e lo si è potuto constatare in occasione dell’ultima visita al Cairo dell’FMI : mentre i sostenitori di Sabahi protestavano contro la delegazione internazionale, Amr Moussa criticava il governo per non aver messo attuato le raccomandazioni dell’FMI . Sulle grandi questioni sociali vi sono quindi forti differenze. Questo aspetto è anche quello che, a mio avviso, limita la credibilità del fronte e permette ai sostenitori dei Fratelli Musulmani di mettere tutti nello stesso sacco, identificandoli come rappresentanti del vecchio regime. È proprio questo l’attuale paradosso: mentre la questione sociale è il terreno su cui la Fratellanza Musulmana appare più debole, questa opposizione non appare per il momento in grado di offrire un’alternativa coerente.
* questa intervista è stata effettuata il 30 giugno 2013 ed è apparsa sul sito francese Mediapart. La traduzione in italiano è stata curata dalla redazione di Solidarietà.