Donna svelata… meglio integrata!
Per la votazione cantonale sul burqa (divieto di dissimulazione del viso nei luoghi pubblici) il Movimento per il Socialismo (MPS) invita ad esprimere due NO, sia all’iniziativa popolare che al controprogetto. Nei fatti le due proposte, iniziativa e controprogetto, sono analoghe.
I promotori del dibattito sul velo insistono su due motivazioni: la prima quella della necessità di “integrazione”, cioè di adattamento ai nostri usi e costumi. La seconda quella del suo carattere oppressivo nei confronti delle donne; il divieto rappresenterebbe un “contributo” dell’Occidente alla lotta delle donne musulmane contro la loro oppressione. Si tratta di due argomenti che devono essere respinti con fermezza.
Pubblichiamo, quale contributo alla discussione, questo testo apparso pochi anni orsono nel quadro del dibattito sul velo lanciato dalle forze politiche di destra in Italia. Pur riferendosi alla situazione italiana, le argomentazioni del testo hanno una totale validità anche per il dibattito che si sta sviluppando in Ticino attorno alla votazione del prossimo 22 settembre. (Red)
di Sara R. Farris*
Nel dibattito pubblico ufficiale così come nelle chiacchierate per strada il razzismo ipocrita è diventato consuetudine: “Non sono razzista, ma…” è il preludio usuale, generalmente seguito da “…sono loro che non si integrano, che non accettano le regole e la cultura del nostro Paese”. Tale affermazione esprime limpidamente uno stereotipo assai diffuso secondo il quale il cosiddetto processo di integrazione non sta funzionando bene e il dialogo inter-culturale è inceppato. Tale malfunzionamento sarebbe colpa degli immigrati (soprattutto di religione musulmana) e della loro riluttanza ad inserirsi in un senso “genuino”, ossia a lasciarsi assimilare.
In questo quadro è possibile gettare luce sul dibattito ciclico che ha per oggetto il velo portato dalle donne musulmane. Il loro indossarlo, infatti, sarebbe incomprensibile ostinazione e classico esempio della indisponibilità degli e delle immigrati/e ad integrarsi. E per questa ragione che la proposta di vietarlo per legge andrebbe letta, a parere di chi periodicamente la ripropone, come una esortazione ad adattarsi al “nostro” stile di vita e una chance di integrazione, il cui accoglimento dimostrerebbe una maggiore disponibilità ad accettare le regole e la cultura della nostra società. Dall’altra parte, il suo rifiuto sarebbe il chiaro segnale dell’assenza di una tale disponibilità e dunque la conferma che l’esito negativo del processo di integrazione è “loro” responsabilità.
La polemica sul velo è illuminante e mostra almeno due mistificazioni prodotte dal dibattito attuale sull’integrazione, cui si accompagnano altrettante strumentalizzazioni che hanno come oggetto il corpo delle donne.
La prima è una mistificazione soggettivista e comunitarista al contempo. Secondo tale logica l’immigrata velata è emblema dell’atteggiamento della popolazione immigrata in generale. Il suo attaccamento ad un simbolo culturale “altro” in tal modo sarebbe la chiara dimostrazione delle “resistenze” all’integrazione delle comunità musulmane nel loro insieme. L’inganno di una tale strutturazione del discorso pubblico consiste anzitutto nella sua impostazione. I suoi agitatori infatti (vuoi lo Stato, vuoi organizzazioni politiche e associative di vario tipo che propongono il divieto di indossare il velo) hanno già stabilito che “integrazione” vuoi dire che gli/le “ospiti” devono piegarsi alla cultura del paese “ospitante” (secondo una deformazione perversa della metafora dell’ospitalità); ossia hanno già impostato le regole del gioco in termini marcatamente autoritari, salvo poi definire l’integrazione come “libera volontà del soggetto, come sua autonoma responsabilità”.
In un quadro siffatto, la questione del diritto di culto così come le questioni più stringenti legate alle difficoltà materiali e formali che gli immigrati e le immigrate incontrano in Italia, e che sono gli aspetti veri che pesano nel loro percorso di inserimento, passano completamente in secondo piano.
Il carattere palesemente assimilazionista e dispotico ditale impianto della retorica sull’integrazione porta con sé la seconda mistificazione, quella paternalista.
Una parte di coloro che sostengono il divieto del velo si giustifica dietro l’accusa del suo carattere oppressivo e misogino. Per questa ragione, sebbene all’inizio possa apparire un atto di forza, nel medio-lungo periodo la sua proibizione avrebbe l’effetto positivo di liberare queste donne dall’oppressione e di condurle ad adottare uno stile di vita più emancipato, ossia occidentale. Questa angolazione del dibattito, in realtà ripropone una polemica datata che esplose negli anni ‘60 e ‘70 tra le femministe liberali/bianche e le femministe del black movement. L’esortazione lavorista ed emancipazionista delle prime all’indipendenza economica, a rifiutare i ruoli ascritti di madri e mogli e a cercare la propria auto-realizzazione al di fuori dei luoghi canonici, fu bollata dalle seconde come “imperialismo bianco”. A parere delle femministe di colore tale esortazione nascondeva una imposizione con il marchio di fabbrica dell’universalismo coloniale e metteva in ombra e/o non considerava affatto altri angoli visuali con cui guardare alla condizione della donna: la razza, la classe, la sessualità, e altre possibili rivendicazioni tra cui il riconoscimento del lavoro domestico come attività produttiva non retribuita e per alcune la rivendicazione di un salario. E importante notare come un dibattito del passato ci consegna almeno due lezioni importanti nel presente: la prima ci dice che i femminismi sono tanti e diversi. La seconda, più complessa, ci invita a riflettere sulle implicazioni di presunti universalismi, soprattutto laddove in nome di fini di lungo periodo presunti oggettivamente desiderabili, ossia l’emancipazione senza velo, accetta conseguenze di breve e medio periodo che costituiscono proprio la negazione dell’emancipazione, ossia la segregazione e la discriminazione. La Francia costituisce un esempio illuminante al riguardo.
A cinque anni dall’applicazione della legge anti-foulard, il bilancio “n’est pas bon” come riassunto efficacemente in un noto slogan agitato dai collettivi di donne che si battono contro la legge. Descolarizzazione, segregazione in casa, aumento delle iscrizioni delle giovani musulmane a scuole private di culto islamico, sono questi i risultati della politica proibizionista del governo francese e delle concessioni “universaliste” del femminismo liberale contemporaneo.
La proibizione del velo, pertanto, non sembra costituire né una preoccupazione autentica per l’integrazione delle immigrate (altrimenti lo Stato francese renderebbe meno ostica l’acquisizione dei loro diritti formali e si preoccuperebbe delle loro condizioni materiali così da favorire la loro auto-liberazione), né un provvedimento utile per le donne (altrimenti chi lo sostiene ne vedrebbe le conseguenze negative ai danni delle giovani musulmane francesi e la negazione del loro diritto ad autodeterminarsi). Con tutto ciò, non si vuole affermare che il velo islamico (nelle sue varie forme) sia un elemento a-problematico. Secondo diverse ricostruzioni storiche e sociologiche, il velo islamico costituisce uno strumento di controllo della sessualità femminile e, perciò in questi termini, è un simbolo di oppressione.1 Tuttavia, la sua proibizione autoritaria da parte dello Stato, in un contesto di isolamento e stigmatizzazione generalizzata delle comunità musulmane, non fa altro che incentivare l’uso di pratiche e simboli religiosi come metodi di difesa e resistenza. Non a caso, le donne di religione islamica in Europa sempre di più oggi indossano il velo per affermare una opposizione, per sottolineare un’appartenenza e una identità che si vogliono brutalmente negate.
Sarebbe a dir poco ingenuo pertanto pensare che la proibizione del velo nasconda intenti emancipazionisti e di liberazione. Nella congiuntura storica attuale l’obiettivo reale dietro la condanna del velo nei fatti non appare null’altro che l’umiliazione e la marginalizzazione dell’islam, dichiarato nemico principale della civiltà occidentale, delle sue radici cristiane e delle sue pompe di benzina. Il corpo svelato della donna dell’avversario in questo quadro diventa il trofeo più ambito del vincitore. Dietro la retorica dell’integrazione così sta la più volgare strumentalizzazione del corpo femminile; dietro la leggenda della sua liberazione si nasconde la violenza brutale della guerra per il profitto (basti ricordare l’inizio della guerra in Afghanistan, intrapresa “per liberare le donne dal burqa e portare democrazia e libertà”); dietro il richiamo alla laicità, nient’altro che l’integralismo dello Stato.
* articolo apparso nel volume Quaderni Viola, nuova serie, no 2 (2009)