Il risultato delle elezioni federali del 22 settembre con molta probabilità sarà una grande coalizione, cioè un governo democristiano–socialdemocratico (CDU/CSU-SPD). I democristiani rappresentano una unione tra CDU e CSU; la CSU (Unione cristiano-sociale) è un partito autonomo che esiste solo in Baviera e ci tiene ad aver un profilo particolare, sempre un po’ distinto dalla CDU (Unione cristiano-democratica) con cui però forma un gruppo parlamentare comune nel parlamento federale.
La costituzione di un tale governo non sarà senza problemi all’interno della socialdemocrazia (SPD): il giovani socialisti di Mecklenburg-Vorpommern hanno preso l’iniziativa per una raccolta di firme contro una grande coalizione sotto lo slogan: “Grande Coalizione, no grazie! NOI si decide (questo era lo slogan principale della SPD nella campagne elettorale). Per un referendum tra gli aderenti!”
Dietro l’iniziativa si sono raggruppate più di cento federazioni regionali e locali del partito e della sua organizzazione giovanile, tra cui la federazione SPD della Sassonia, di Berlino, della Thuringia, del Baden-Württemberg e della Rhenania del Nord-Westfalia (NRW). La preoccupazione, assai realistica, di pagare questa coalizione con un ulteriore calo massiccio dei consensi nelle elezioni del 2017 agita molti membri del partito. La direzione aveva previsto una cosa simile e aveva indetto un convegno dei gruppi dirigenti per venerdì 27 settembre. Questo si è concluso invece con la proposta d’avvio di trattative coi democristiani; ma la direzione vuole sottoporre il loro esito ad una inchiesta tra i membri del partito. Mentre gli elettori del SPD favoriscono al 57% una grande coalizione, i membri del partito la ripudiano (al 65%). Le direzioni dei principali sindacati sono a favore, come anche le associazioni padronali nelle attuali circostanze.
Nella memoria di gran parte della popolazione la grande coalizione del 2005-2009 si è distinta per aver agito con una terapia anti-urto nei primi tempi della crisi, adottando classiche misure keynesiane come un bonus per chi si decideva a comprare un’auto nuova e la cassa integrazione per i settori allora più colpiti dalla crisi (soprattutto automobile e meccanica).
Gran parte della gente spera che il nuovo governo ripeterà queste iniziative (a differenza del governo passato democristiano-liberale che invece ha salvato solo banche e assicurazioni).
Questa prospettiva di governo, in realtà, non è una sorpresa, molti infatti l’avevano predetta, altri, tra cui chi scrive, avevano previsto piuttosto un successo della campagna di voti in prestito a favore dei liberali, iniziata nell’ultima settimana dopo il loro risultato disastroso nelle elezioni in Baviera. D’altra parte, non è la prima volta che una tale campagna ha luogo e finora è sempre andata liscia. Poteva esprimersi così una sorta di istinto di classe della borghesia tedesca: un governo nero-giallo è l’unico governo di stampo puramente borghese.
Questa volta invece no, i liberali hanno mancato la soglia del 5 percento per un mero 0,2%. La delusione sulla performance politica e personale dei liberali al governo è stata troppo grande. A parte certe bizzarrie del suo personale dirigente, il fattore decisivo è certamente stato il fatto che i liberali non hanno saputo imporsi con le proprie proposte a favore di una riduzione delle tasse per i ceti medi superiori. Il clima politico che si è creato in questa crisi non lo permetteva e non lo permette. L’unica misura che i liberali hanno portato a casa era un’esenzione dall’IVA per gli alberghi, una misura che ha causato tanto malcontento, tanto che il governo dovette abbandonarla. I liberali nell’ultimo governo hanno veramente fatto brutta figura e alla fine non hanno potuto presentare nulla che risultasse frutto proprio del loro contribuito.
In realtà il declino del partito liberale risulta dalla scelta fatta 15 anni fa, quando Guido Westerwelle, già ministro degli esteri, ha risposto all’insediamento del governo Schröder (socialdemocratico-verde) con una campagna aggressiva per un alleggerimento delle imposte per i ceti “più benestanti”; ha ridotto il profilo liberale quasi interamente a questo slogan. Ciò gli ha permesso una ripida crescita dei consensi elettorali – era un periodo in cui Westerwelle sognava il 18%. E nel 2009 ha potuto raccogliere 14%.
Del resto anche la democrazia cristiana al tempo fu travolta dalla spinta liberale, il suo programma elettorale del 2001 ne fu imbevuto. L’operazione però fallì, i democristiani nel 2002 persero le elezioni e Angela Merkel, allora presidente del partito, iniziò la svolta verso il centro proseguita sino ad oggi, una svolta che le ha valso dure critiche all’interno del suo proprio partito e l’accusa di una “socialdemocratizzazione” della democrazia cristiana.
Dopo questa sconfitta elettorale, che lo porta a non esser più presente nel parlamento federale e a esserlo solo in dieci dei 16 parlamenti regionali, il partito liberale dovrà riinventarsi. a causa della globalizzazione la clientela piccolo borghese orientata sul mercato interno viene meno. Tradizionalmente il partito riunisce un’ala nazionalliberale, con radici perfino nel nazismo, e un’ala liberale di sinistra che prevalse dopo la svolta del 1971 e l’apertura verso il primo governo di coalizione con la socialdemocrazia di Willy Brandt. Con i Verdi, e nel frattempo anche i Pirati, sono cresciuti i concorrenti a sinistra. Ora con l’ascesa dell’Alleanza per la Germania è pure cresciuto un concorrente alla sua destra.
Sono in molti, non soltanto nelle file della sinistra, che si sono apertamente rallegrati dell’uscita dei liberali dal parlamento (“il miglior risultato di queste elezioni!”).
Ricordo che nell’aereo di ritorno da Chianciano, all’annuncio del pilota sulle prime previsioni che già davano i liberali al di sotto del 5 percento, non pochi hanno spontaneamente applaudito. I liberali da noi sono il partito che più di tutti viene identificato con il viso nudo, brutale della classe borghese, detestato e odiato da ogni sindacalista e ogni lavoratore dipendente che abbia un minimo di coscienza di classe. Perciò è difficile che le elezioni del 22 settembre, nonostante la grande vittoria dei democristiani, vengano percepite come una “svolta a destra”, come pare invece essere la lettura diffusa in alcuni paesi all’estero.
Angela Merkel ha “stravinto”, e questo per varie ragioni: Intanto i due partiti democristiani hanno raccolto 3,5 milioni di voti in più dell’ultima volta, di cui almeno 3 milioni spettano proprio a Merkel (“la vittoria della cancelliera”). I liberali son fuori e per la prima volta è successo che quasi 7 milioni di elettori su 44 milioni non sono rappresentati in parlamento per via della clausola di sbarramento del 5 percento. Con queste perdite le sarebbe bastato il 43% dei voti per ottenere la maggioranza assoluta dei seggi. L’ha mancata per 5 seggi.
La Merkel è stata definita la personificazione della grande coalizione. Infatti ha sviluppato uno stile politico di relativa indipendenza dal proprio partito, uno stile presidenziale (potremmo dire) rompendo una serie di tabù democristiani: l’uscita dal nucleare, un’assenso limitato al salario minimo, il matrimonio omosessuale, il diritto dei bambini ad un posto in asilo nido, la scuola a tempo pieno (uno schiaffo in faccia alle tradizioni della famiglia), persino l’abbandono del servizio militare obbligatorio.
Alcune sono state svolte che hanno colto il suo partito totalmente all’imprevisto. Senza grandi battaglie ideologiche, ma con assiduità ha operato per una modernizzazione della democrazia cristiana, per rendere questo partito più accettabile per la popolazione urbana e specialmente per le donne, soprattutto le giovani, che non vogliono più stare a casa ma aspirano ad un’indipendenza economica e cercano di conciliare lavoro e famiglia. Pur senza discorsi femministi, ha favorito la carriera delle donne nel partito e ne ha chiamate parecchie nei suoi gabinetti.
E’ stato possibile perché Merkel viene dall’Est, dove ha imparato come funziona una società come fosse normalissimo che le donne lavorassero e per i bambini ci fosse un’assistenza pubblica. Fu reso possibile anche perché Merkel, venendo dal di fuori, non era coinvolta in intrighi e cordate interni.
Come ricompensa, per la prima volta nella storia della CDU, questo partito è stato votato a maggioranza dalle donne (44% elettrici contro 39% elettori), un risultato che altrimenti solo i Verdi hanno ottenuto (9% contro il 7%). Con queste aperture la CDU finisce ad essere, accanto ai Verdi, la vera vincitrice nel movimento delle donne e nell’integrazione delle donne nel mercato di lavoro.
Merkel ha raccolto la maggioranza dei consensi anche tra coloro che hanno votato per la prima volta (30%) e tra i lavoratori (35%). Se fosse per lei, sarebbe perfettamente capace di formare un governo anche coi Verdi, ma il partito non è ancora pronto per tali spregiudicatezze.
Merkel ha stravinto anche perché gli altri partiti non sono stati capaci di contrapporle una linea politica chiara di opposizione. Il candidato della socialdemocrazia, Peer Steinbrück, famiglia di imprenditori con legami alla famiglia dei banchieri Delbrück, ha avuto problemi nel dover prendere le distanze dall’agenda 2010 del governo Schröder, che tuttora molti socialdemocratici rimproverano alla loro direzione, e allo stesso tempo conquistare consensi con un profilo sociale più di sinistra (salario minimo legale, tassazione dei ricchi). Per quanto riguarda la politica europea poi, le differenze con Merkel sono minime: L’ SPD spinge più verso un’europeizzazione della politica e delle istituzioni, mentre la democrazia cristiana pone più l’accento sulla salvaguardia degli interessi nazionali.
Merkel finora è riuscita a far passare l’argomento che fra i due non c’è contraddizione anzi, che gli interessi nazionali sono perseguiti meglio se legati ad una prospettiva europea. Fino a quando la situazione economica le permette di continuare su questo percorso continuerà ad essere “la cancelliera di tutto il popolo”.
I Verdi avrebbero potuto sfidarla sulla svolta energetica, dove Merkel, dopo la clamorosa dichiarazione di voler chiudere le vecchie centrali nucleari. Questa decisione, se non si vuol tornare alle centrali a carbone, implica una ristrutturazione profonda del sistema di produzione e distribuzione dell’energia elettrica, con la conseguente messa in discussione del potere dei grandi gruppi elettrici. E infatti, sotto la pressione di questi ultimi, Merkel sta tornando sempre più indietro. Invece i Verdi hanno scelto di puntare su una campagna “più tasse dai ricchi”, sulla quale non sono veramente credibili.
I Verdi hanno perso un milione di voti, risultato che rafforzerà l’ala destra (“realista”) a scapito di una linea coerente nel ricambio della politica energetica (la sinistra del partito viene considerata colpevole dello scarso risultato).
L’altra grande sorpresa delle elezioni è stata la ripida ascesa dell’Alternativa per la Germania (AfD), un partito fondato solo pochi mesi fa. Ha ottenuto tanti voti quanto i liberali (poco più di due milioni) ovvero 4,7%. I suoi fondatori sono tutti gente molto per bene, professori di economia che danno alla politica, dopo avere tra l’altro intentato varie volte causa contro i prestiti alla Grecia e il meccanismo europeo di stabilità, oltre che contro il trattato di Amsterdam nel 1997 (Hankel e Starbatty). Hankel, che viene dal SPD, nel 1990 aveva preso posizione contro la gestione della riunificazione tedesca per preoccupazione sulla stabilità monetaria del marco.
Questo partito esprime in primo luogo il dissenso delle piccole imprese tedesche contro la politica dell’euro, dissenso formulato anche da tanti giornalisti della stampa conservatrice ed economica fino a quella di estrema destra. Si tratta di conservatori di destra che non accetterebbero mai di mischiarsi con la plebe e non vogliono aver niente a che fare con l’estrema destra.
Il loro programma si riduce a due pagine: dissoluzione dell’unione monetaria oppure creazione di un polo “euro-nord” contro i “fannulloni e incapaci” dell’Europa del Sud, smantellamento della burocrazia di Bruxelles e rinforzamento dei poteri nazionali, rifiuto del salvataggio delle banche con mezzi fiscali, un cambiamento del sistema delle imposte verso una riduzione della loro progressività. Qui si mescolano posizioni critiche sull’euro, come le formula in parte anchedi Die Linke, con posizioni scioviniste e ultraliberali. Invece le proposte per un rigoroso freno all’indebitamento e per una stretta selezione dei migranti accettati in Germania (contro “i parassiti dei nostri sistemi sociali”) e una politica famigliare di vecchio stampo sono posizioni che condividono con i democristiani.
Già questi contenuti, che poi si assommano nello slogan “No all’euro!”, segnalano che l’AfD segue un progetto elitista ma aperto un po’ in tutte le direzioni. Infatti l’AfD ha ottenuto 430.000 voti dai liberali, 340.000 da Die Linke, 290.000 dai democristiani, 210.000 da non votanti e 180.000 dal SPD; ha fatto meglio all’Est con un massimo di 6,8% in Sassonia, che all’Ovest dove però supera il 5% in regioni economicamente forti come Baden-Württemberg o l’Assia. Si può dunque considerare che il suo elettorato è molto eterogeneo.
La AfD ha annunciato che si presenterà alle elezioni europee dove pensa di poter riuscire perché lo sbarramento è solo al 3%. Tuttavia non è scontato che possa consolidarsi come partito euroscettico-nazionalista: dovrà contare con la forte concorrenza dei liberali e con le resistenze democristiane, che faranno di tutto per impedire le presenza di un partito conservatore alla sua destra. Potrà però servire anche per favorire uno spostamento a destra di questi partiti.
Per Die Linke l’ascesa del AfD e lo spostamento di un terzo delle sue perdite complessive verso un partito nazionalista dovrebbero essere un segnale d’allarme. In tutto Die Linke ha perso 1,4 milioni di voti, tuttavia in confronto con risultati ottenuti durante l’anno scorso si è è stabilizzata. Nella sua campagna elettorale l’Europa non ha giocato nessun ruolo, forse perché i sondaggi dicevano regolarmente che la preoccupazione per l’euro non figurava tra le prime. Ma questo è stato un errore, perché se si vuole un cambiamento completo di rotta bisogna ben tener conto anche del contesto estero, cioè dell’appartenenza o meno a istituzioni sopranazionali tipo la NATO, l’Unione Europea e altre. Proprio la crisi dell’euro non permette più di limitare le risposte a livello nazionale. Anzi, è proprio l’intreccio tra il nazionale e il sovranazionale europeo da mettere in rilievo, almeno quando un partito rifiuta il nazionalismo e lo sciovinismo.
La critica alla politica europea è stata così abbandonata e lasciata al AfD. Qui non si tratta solo di tattica elettorale, c’è semmai da mettere meglio a punto la posizione europea di Die Linke stessa che oscilla tra il no all’euro e una posizione di critica riformista alle istituzioni europee.
Poco prima delle elezioni alcuni sondaggi constatavano che i consensi più alti per un’uscita dall’euro venivano proprio da Die Linke (57%) – allora l’AfD non veniva ancora compresa nell’inchiesta. Si tratta di un difetto che non riguarda solo Die Linke, ma la sinistra europea nel suo insieme. La credibilità di una posizione internazionalista anti-UE dipende infatti in buona parte dall’essere condivisa con altre forze in altri paesi europei e dalla visibilità che le si può dare.
L’impossibilità di formare un governo rosso-verde (SPD-Verdi) senza l’appoggio di Die Linke ha ravvivato il dibattito in seno a quest’ultima e rafforzato le posizioni che dicono sì, la prossima volta bisogna che questa opzione si realizzi. Queste idee si rafforzeranno ancora se l’SPD continuerà a perdere consensi. Un’opzione governativa a livello federale però presuppone un assenso di Die Linke davanti all’imperialismo tedesco (la revoca di posizioni anti-NATO e anti-EU). C’è dunque da aspettarsi un periodo di lotte interne a Die Linke per chiarificare l’orientamento generale. La sinistra del partito in questa situazione ha tutto l’interesse a non limitarsi ad agire all’interno del partito ma ad unirsi con la sinistra anticapitalista extraparlamentare.